Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Mettendo una accanto all’altra la mesta sfilata con cui abbiamo ricordato il 2 giugno 1946 e la sfavillante celebrazione, ieri a Epsom, dei sessant’anni di regno di Elisabetta d’Inghilterra, viene da chiedersi perché a noi italiani non è concesso di essere orgogliosi e partecipi allo stesso modo degli inglesi di una grande festa nazionale, come mai non ci attraversa nemmeno lontanamente un sentimento, non si dice di amor di patria, ma almeno di un minimo orgoglio per quanto fatto in ogni caso in questi 151 anni di storia o almeno, trattandosi del 2 giugno, in questi sessantasei anni di dopoguerra…
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• E di che cosa dovremmo essere orgogliosi? E che cosa dovremmo celebrare?
È esattamente questo il tipico spirito italiano, che si ritrae davanti a tutto ciò che riguarda il proprio paese, il quale in sostanza gli pare un cumulo di vergogne. Eppure non è del tutto vero, non può essere del tutto vero. Oggi siamo l’ottava potenza mondiale e subito dopo la guerra nessuno avrebbe puntato un penny su di noi, eravamo un paese sconfitto, seppellito dalle macerie, un paese che era appena uscito non solo da una guerra mortale ma anche dall’esperienza di una dittatura per tanti versi umiliante… Benché il fascismo avesse preteso di fondare le proprie fortune anche sul rilancio di un’idea di italianità dominatrice del mondo, l’impero eccetera…
• Ma è proprio questo che rende impossibile, che rende in-credibile, che rende persino a volte ridicola ogni celebrazione…
Sì, questo, e il cumulo di retoriche falsità che hanno sommerso il Risorgimento – l’unico periodo del quale potremmo anche andare orgogliosi, almeno fino al 1861 -, e poi la mediocrità al limite del criminale della nostra classe politica, che, guardando indietro, ci pare sempre peggiore man mano che passano i decenni. Metto però nel conto di questa impossibilità di amare il proprio Paese anche la responsabilità del Pci che per trent’anni ha sostenuto, con la sua propaganda, che questo Stato - lo Stato col Parlamento, le elezioni, e il resto – era solo un inganno del capitalismo al tramonto, il vero stato essendo quello socialista da edificare e per realizzare il quale qualunque atto contro l’esistente sarebbe stato giustificabile. Quando si trattò di recuperare uno spirito patrio, di fronte all’attacco terroristico, era ormai troppo tardi. Così eccoci a constatare, per mille e una ragione, l’impossibilità di un sentimento. In Inghilterra, quando in un teatro prendono posto nel palco reale i principi (e sia pure principi sbeffeggiati come Carlo e Diana) il pubblico balza in piedi come un sol uomo. Ieri a Epsom c’erano signore avvolte in stole azzurre con la scritta “Great Britain”. Da noi è stata un’impresa convincere i calciatori a cantare l’inno. Si vergognavano.
• E l’inno non è poi – musicalmente parlando – neanche un granché. Però le celebrazioni per i 150 anni sono andate piuttosto bene, tricolori dappertutto e anche spontaneamente.
È vero. Io do il merito di questo alla Lega. Dovendosi discutere sulla possibilità di separarci – nordisti da una parte, sudisti dall’altra – i dubbi sono venuti a tutti quanti. Ed è forse cominciato un minimo ripensamento storico non solo sui nostri mali, ma anche sui nostri sacrifici per arrivare ad essere quello che siamo. Ha fatto la sua parte, nel successo dei 150 anni, anche la statura morale, politica e culturale di quelli che predicavano la scissione. Statura che, venendo a questi ultimi giorni, s’è effettivamente confermata come minima. Saremo anche pessimi, però migliori di quello che vogliono farci credere.
• Qualche notizia sulla sfilata di ieri a Roma.
Quanto poco gli italiani credano alla parata del 2 giugno è dimostrato dal notevole successo in rete della mozione per cancellarla. E poi Alemanno s’è rifiutato di essere presente e lo stesso i leghisti e i dipietristi. Il 2 giugno, cioè, gli appartiene poco. Ricordiamo: il 2 giugno, finita la guerra, si votò il referendum per scegliere tra monarchia e repubblica. Votarono per la prima volta le donne. Tutto questo è stato ricordato con una festa al Quirinale l’altro pomeriggio (ospiti fatti entrare da un ingresso laterale per il timore di contestazioni) e con la sfilata di ieri. Senza sistemi d’arma, senza cavalli, senza frecce tricolori, senza fanfare. Un minuto di silenzio in memoria dei terremotati. Davanti alla tribuna presidenziale, le bande si sono limitate a far rullare i tamburi.
• E per la regina invece?
Gli inglesi hanno alle spalle una storia di conquiste millenaria. Così ieri centocinquantamila persone all’ippodromo di Epsom hanno salutato entusiaste la sovrana in abito blu royal e suo marito Filippo in tight. Elisabetta ha fatto il giro dell’ippodromo su un’auto scoperta, uomini agganciati a paracadute con i colori dell’Union Jack sono scesi dal cielo, la soprano Katherine Jenkins ha cantato a piena gola God save the Queen, lacrime agli occhi per tutti e orgoglio per tutti di essere e di essere stati quello che sono e quello che sono stati. Il cronista dei reali britannici ha detto: «Celebriamo il bilancio dei suoi 60 anni di regno, celebriamo la monarchia e celebriamo anche, in modo più informale, la nostra identità e il nostro orgoglio nazionale». Qualcuno, stamattina, scriverà sui nostri giornali parole anche lontanamente simili a queste?
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 3 giugno 2012]