Raffaele La Capria, Corriere della Sera 3/6/2012, 3 giugno 2012
Che strano e bel libro è Vita e morte di un ingegnere di Edoardo Albinati (Mondadori, pp. 150, 18)
Che strano e bel libro è Vita e morte di un ingegnere di Edoardo Albinati (Mondadori, pp. 150, 18). Certo è uno dei migliori usciti in questa stagione. Più che una critica vorrei qui dire le mie impressioni di lettore e darne una personale, non so quanto condivisibile, interpretazione. È un libro che va interpretato, misterioso, che nasconde qualche segreto, forse anche per l’autore stesso, che lo teneva chiuso da dieci anni in un cassetto senza osare pubblicarlo, per un non so quanto giustificato pudore, o perché lui stesso era intimidito di quel che suo malgrado il libro avrebbe potuto rivelargli. L’impeccabile e implacabile controllo dello stile di questo racconto autobiografico nasce anche dalla necessità di creare una distanza protettiva tra sé e i fatti raccontati, e cioè dopo la morte per cancro del padre. Un padre che curiosamente, proprio perché presentato come un uomo comune, un ingegnere dedito solo al proprio lavoro e ai propri doveri familiari, acquista man mano una personalità non comune per il modo con cui affronta il terribile male che lo ha improvvisamente aggredito. Un padre «cui dava fastidio il pathos», che reagisce sempre con calma alla cattiva sorte, e «aspetta con un sorrisetto sulle labbra» di sapere dal medico quante probabilità ha di restar vivo. E questo suo comportamento fa scoprire al figlio l’uomo che fino a quel momento «aveva vissuto in incognito» trincerandosi dietro una barriera di discrezione. La stessa discrezione manifesta ora nel suo rapporto col figlio che come può lo assiste. Ma più che per il senso di catastrofe che si abbatte sulla famiglia e l’alternanza di speranza e disperazione che le varie fasi della malattia determinano, questo libro colpisce per ciò che non dice e arriva ugualmente a chi legge, provocando insieme inquietudine e commozione. Perché il dolore che l’io narrante prova non è un dolore diretto, ma un dolore che lui, da scrittore, da uomo indiretto, ha confinato in un incomprensibile distacco. Ed è questo distacco, la distanza della letteratura dalla vita, che lui vuol capire e forse vuol colmare, ed è questo che determina la tensione del libro. Un atto di contrizione recitato ripercorrendo momento per momento le varie fasi della tragedia che ha colpito il padre e la distante attenzione con cui è stata seguita dal figlio che si domandava perfino, a volte, con quali parole avrebbe potuto descrivere ciò cui stava assistendo, e cioè l’agonia del padre e la sua lotta con la morte. Mentre lui soffriva io «prendevo appunti», dice. Scrivendo e descrivendo tutto per filo e per segno, senza nulla omettere, il cattivo odore, il sangue, gli umori, la merda, sembra quasi che il figlio voglia punirsi, far rivivere tutto quando tutto è finito, per suscitare in sé i sentimenti e il dolore che allora avrebbe dovuto provare. Tanto grande è il rimorso quanto ora lo è l’espiazione. Vita e morte di un ingegnere è dunque la via crucis di questa espiazione, con le varie stazioni del calvario sofferto, ed è anche una ricerca dell’autore, su se stesso, sul mistero della propria natura e sul proprio destino di scrittore, di cui ha sentito il peso e la responsabilità. E il pianto, che allora non affiorò, ora dopo anni, sembra quasi che spunti da queste pagine.