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 2012  giugno 03 Domenica calendario

AMMALARSI PER I LIBRI - C

on i libri è possibile rovinarsi la vita. Perdersi. Struggersi. Dannarsi. Spendere cifre da capogiro. Giungere al delitto (persino dei religiosi ne hanno commessi). C’è una febbre cartacea da cui non si guarisce, insensibile ai farmaci, alle sedute psicoanalitiche, persino alle cure che venivano praticate nei vecchi manicomi. E, purtroppo, i malati sono felici di esserlo. Sino alla fine. Il terribile contagio colpì — e colpisce — persone diversissime tra loro come Monaldo Leopardi, Giuseppe Pontiggia o Umberto Eco. Per tali motivi non è facile segnalare i libri che fanno impazzire, giacché la loro natura richiama alla mente quelle storie strazianti con donne impossibili (ci scusiamo con le femministe) più che le normali patologie dei collezionisti.
I libri del Novecento non fanno eccezione. Qualcuno pensa che si perda il senno soltanto per un incunabolo o per la prima edizione di Cecco d’Ascoli, il grande nemico di Dante. Non è vero. La follia giunge sino all’era di Internet e trova spazi sterminati nella produzione del secolo scorso. Il bibliofilo, poi, è un animale strano: si complica la vita andando a cercare la ragione per cui soffrire. Studia continuamente le rarità, le tirature, gli incidenti che possono aver reso introvabile un titolo. Gode per un incendio avvenuto in un magazzino. Gongola per fatti degni del codice penale. E poi, raccolte le «sue» notizie, le elabora; e, gonfio di bramosia, procede vagolando nei deserti delle passate tirature. È come un cane da tartufo, disposto a spendere cifre superiori a quelle necessarie per il prezioso tubero.
Scegliere alcuni libri del Novecento? Tentiamo. Chi scrive lo farà, per non tradire il cuore formicolante d’invidia dei bibliomani, con un tocco di cattiveria più che con slancio d’amore. Si arriva sempre a piluccare tra alcune rarità. Con un occhio alle tirature e l’altro agli accidenti del caso. Diciamolo senza infingimenti: tra i più cari del Novecento, e tra i più ricercati, vi è Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti. Uscì a Udine a spese del poeta nel 1916, ebbe una tiratura di 80 copie. Carta modesta, nulla di entusiasmante. Per acquistarlo ci vogliono ormai 40 mila euro, ma con una dedica questo parametro salta e potrebbe diventare inavvicinabile. Fa parte di quei libri (come la prima edizione de Il principe di Machiavelli) che non si trovano online, e nemmeno sono registrati sui bollettini cartacei, ma vengono bisbigliati nelle orecchie del potenziale cliente. È assente dai cataloghi almeno da mezzo secolo. Qualche antiquario nemmeno l’ha visto. Certo, la seconda edizione di La Spezia del 1923, con carta bella e presentazione di Benito Mussolini, si può trovare anche a meno di 2 mila euro. Ma non scatena la libidine come la prima.
Poi c’è il libro futurista. Qualcuno amerebbe di Ardengo Soffici BIF § ZF + 18. Simultaneità e Chimismi lirici (Firenze, Edizioni della Voce, 1915), considerato un esempio principe di sperimentazione, con la copertina a collage. La prima, in-folio, vale sui 20 mila euro; la seconda del 1919 scende a 4-500 euro (se ha la sua brossura originale). Ma forse conviene rodersi per uno degli esempi della lito-latta, ovvero con L’anguria lirica il «lungo poema passionale» di Tullio d’Albisola. Ha le illustrazioni di Bruno Munari e un ritratto di Diulgheroff, la prefazione è di Marinetti (Roma, Edizioni futuriste di "Poesia", 1934). Questo libro, se lasciato in orizzontale, era colpito da un inconveniente: le pagine si schiacciavano e si incollavano l’una all’altra. Insomma, è opera bella e fragile. In buone condizioni arriva intorno a 20 mila euro. Ebbe una tiratura di 500 copie. Per molti aspetti lo preferiamo all’opera di Fortunato Depero Depero futurista / libromacchina imbullonato (Milano, Dinamo-Azari, 1927) che fu realizzata in mille copie e oggi vale circa 14 mila euro. Piaceva, per dirla con Gadda, agli ossibuchivori che collezionavano arte contemporanea ed erano attratti dalla legatura in cartonato tenuta ai piatti da due grossi bulloni metallici.
Per finire con la poesia che, per compensare l’inflazione a cui ora è soggetta, ha libri dal valore più alto. Ossi di seppia di Eugenio Montale, edito da Gobetti a spese dell’autore nel 1925 (con una tiratura che non superò il migliaio di copie: qualcuno sostiene 600, altri 1000), è diventato un classico per le voglie del Novecento. Curiosità: gli esemplari vennero quasi tutti dedicati — erano in pratica regalati — dall’autore; quindi il vero dandy della bibliofilia cerca quelli senza la locuzione manoscritta di Montale, mentre l’ossessionato li colleziona entrambi. Il valore è di circa 12 mila euro. L’antiquario, a seconda di quel che possiede, alza il prezzo per la copia muta o per quella dedicata. Non possono infine mancare i Canti orfici di Dino Campana, nella prima del 1914, edita da Ravagli. Opera pubblicata a spese dell’autore, offerta «A Guglielmo II imperatore dei germani», era venduta dal poeta nei caffè di Bologna e Firenze. Campana strappò in seguito proprio la pagina con la dedica, il resto lo fecero taluni patriottardi. Tiratura bassa: completa ha un valore di circa 10 mila euro.
Certo, c’è anche la prosa. Rimane, nonostante il prezzo (circa 2 mila euro), una questione d’orgoglio possedere la prima de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Ancora oggi si discute se la tiratura della primissima (novembre 1958, Feltrinelli) fosse di 500 o di 1000 copie, anche se è ragionevole credere nel secondo dato; di certo sappiamo che il libro era figlio di una perplessità. Ha scritto, nella pagina del copyright, «prima edizione»: non si dimentichi che, sempre in quel 1958, se ne realizzarono altre due; poi il titolo esplose. Ricordiamo per chiudere un volantino, scritto in italiano arduo da Gabriele D’Annunzio, per il volo su Vienna della squadriglia di undici aerei il 9 agosto 1918. Venne lanciato insieme a un altro, «tradotto» di Ugo Ojetti e tirato in 350 mila copie, ben più comprensibile. Ma il primo oggi vale circa mille euro, il secondo sì e no un centinaio.
Armando Torno