3 giugno 2012
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Biografia di Elio Toaff
• Livorno 30 aprile 1915 – Roma 19 aprile 2015. Rabbino capo di Roma dal 1951 al 2001. Storico il suo incontro con Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.
• Figlio di Alice Jarach e del rabbino capo Alfredo Sabato. Allievo del Collegio rabbinico di Livorno, si laureò in Giurisprudenza a Pisa. Fu nominato rabbino di Ancona dal 1941 al 1943. Entrò nella Resistenza, dopo essersi rifugiato a Città di Castello. Con la Liberazione, fu nominato rabbino di Venezia ma nel 1951, venne chiamato a Roma dove rimase capo spirituale della sua comunità fino al 2001. Oltre a guidare la comunità romana, ebbe molti incarichi nazionali. Fu presidente della Consulta rabbinica italiana, direttore del Collegio rabbinico italiano e dell’Istituto superiore di studi ebraici. In quanto all’Europa, è stato a lungo membro dell’Esecutivo della conferenza dei rabbini europei.
• Ha detto di essere diventato rabbino nonostante suo padre glielo sconsigliasse: «Mi disse che fare il rabbino non era né semplice né comodo. Bisogna accollarsi tutto quello che succede in una comunità, affrontare insieme le difficoltà e i dolori. Da mio padre, che era un bravissimo professore di greco (fra l’altro aveva dato a lungo lezioni a un ragazzo che si chiamava Carlo Azeglio Ciampi), avevo imparato per fortuna a vedere il lato buono anche nelle cose più terribili, a difendermi con l’ironia. Ero un bambino quando, durante le azioni squadriste del 1922, uno studente fascista sparò in classe a mio padre. Lui, senza scomporsi, si fece consegnare la pistola e la mise sulla cattedra. A lezione finita gliela restituì dicendo: “La prossima volta usala meglio”».
• «Chiesi la tesi di laurea. Era il 1938 e con le leggi razziali gli ebrei non potevano più né insegnare né iscriversi. Non trovavo un solo professore disposto a darmi la tesi, finché accettò il professor Mossa. Ma alla discussione finale il preside della facoltà, Cesarini Sforza, buttò la toga sulla cattedra e uscì sbattendo la porta. Che un ebreo potesse ottenere la laurea era superiore alla sua sopportazione».
• «Non posso pensare alla Shoah senza vedermi davanti agli occhi i morti della strage di Sant’Anna di Stazzema. Ero partigiano in Versilia, entrai in paese poco dopo che i nazisti ne erano usciti. Mi trovai davanti i cadaveri di più di 500 persone, donne, uomini e bambini, ammassati in mezzo alla piazza e bruciati dando fuoco alle panche della chiesa. Sono immagini che non ho mai potuto dimenticare, che sono tornate per molto tempo nei miei sogni. Quella strage era l’espressione di un odio inconcepibile di esseri umani nei confronti di altri esseri umani, di un razzismo che conduce all’annientamento di chi è diverso da te».
• «Non potrò mai dimenticare chi mi salvò quando ero rabbino ad Ancona. Abitavo in via Maratta a circa cento metri dalla chiesa del Gesù dove c’era un prete dall’aspetto minuto, don Bernardino, il quale aveva fatto amicizia con me. Spesso parlavamo insieme, si faceva due passi. Una mattina mentre tornavo dalla preghiera del tempio mi venne incontro per strada e con cenni e qualche parola concitata mi invitò a stare attento. Io gli chiesi: “Don Bernardino che c’è, che è successo?”. E lui: “Attenzione, a casa sua ci sono i tedeschi che l’aspettano, venga in canonica”. Andai da lui in canonica e mi sono salvato» (da un’intervista di Orazio La Rocca).
• «Mentre, nel dopoguerra, era rabbino a Venezia, una comunità che gli fu molto cara per la sua vivacità intellettuale, vide un carrarmato tedesco abbandonato e insieme agli altri ebrei, riuscì non si sa come ad inviarlo al neonato Stato di Israele, dove tre dei suoi quattro figli sono andati a vivere. Poi, nel ’51, fu la volta di Roma, rabbino capo per 50 anni: un’impresa difficile anche quella, perché la comunità ferita dalla guerra, distrutta dalla razzia del nazista al ghetto del 16 ottobre, con i suoi 2091 ebrei rastrellati, era nella miseria nera, scioccata. “Lavorando sodo siamo cresciuti e abbiamo iniziato a camminare” riassumeva col suo solito temperamento positivo, mentre continuava a ricostruire l’ebraismo italiano. Pacato, sorridente, deciso. Amatissimo dagli ebrei» (Susanna Nirenstein) [Rep 20/4/2015].
• Sulla visita di Giovanni Paolo II (1986): «Fu con il cardinale Dupré, che allora era il presidente della commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, che maturò l’idea di questa visita. Anche attraverso il cardinal Meyìa ci furono vari incontri riservati alla chiesa di San Carlo dei Catinari. “Ha qualcosa in contrario a entrare?”, mi aveva chiesto Meyìa davanti alla porta della canonica. Io risposi di no, rompendo una vecchia tradizione. Mi preoccupava però di quel che avrebbero pensato i rabbini europei. Li consultai uno per uno, mi dissero tutti di sì. E così si arrivò, il 13 aprile dell’86, alla visita di Giovanni Paolo II al Tempio maggiore. Mi colpì che il papa, abbracciandomi, ci chiamasse “fratelli maggiori” invece che “perfidi ebrei”, come ai tempi di Pietro».
• Ottimi rapporti con i presidenti della Repubblica, una breve eccezione nell’82 a causa di un attentato di terroristi arabi alla sinagoga in cui rimase ucciso un bambino: «Me la presi con Pertini per il clima di antisemitismo che era stato alimentato in seguito al problema palestinese. “Non mi sarei mai aspettato di trovarti qui”, gli dissi con il mio impeto livornese, vedendolo nella camera ardente. Uscì in silenzio, ma poi mi telefonò addoloratissimo. E allora capii che era necessario un gesto di riconciliazione. Andammo sottobraccio ai funerali e nessuno lo contestò. Ma prima avevo detto in sinagoga: “Se domani sentirò anche una sola voce contro Pertini, dovrete cercarvi un altro rabbino”. Tutte le fedi tendono alla pace. Questo è il loro fondamento, che non può venir intaccato da singoli episodi. Anche di fronte alla guerra non si può dimenticarsene» (da un’intervista di Chiara Valentini).
• Rapporti non sempre tranquilli con Israele: nell’ottobre 2000 definì «irresponsabile provocazione» la visita di Sharon alla Spianata delle Moschee.
• «C’era sempre di mezzo il lascito del padre, come spiegò nel maggio 2010 in un’intervista rilasciata a Giacomo Kahn per Shalom, la rivista dell’ebraismo italiano: “La nostra, in casa, era una religiosità vissuta con allegria, nella quale non è mai mancata la discussione, il dibattito, il confronto delle idee e delle opinioni. In quell’ambiente ho imparato che anche con le persone che ti sembrano apparentemente lontane nelle idee e nei valori si può trovare, con il dialogo e con la perseveranza, un piano comune per intendersi”» (Paolo Conti) [Cds 20/4/2015].
• Sposato con Lia Luperini, quattro figli: Ariel, storico (vedi); Daniel (Venezia 7 aprile 1949), giornalista alla Rai; Miriam, che vive in Israele col marito, il professor Sergio Della Pergola; Gadi, che vive a Salonicco.
• È morto nel pomeriggio di domenica 19 aprile 2015, nella sua casa romana. Il 30 avrebbe compiuto cent’anni: «Se ne è andato l’uomo della ricostruzione, un gigante del Paese, che ha combattuto anche nella Resistenza. Il Rabbino che ha costruito il risorgimento ebraico romano dopo la Shoah, restituendo una dignità e il fasto che pensavamo di aver perduto per sempre» (Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica della Capitale).
• La sua ultima apparizione in pubblico risale al 30 aprile 2014, quando, per i suoi 99 anni, si era affacciato alla finestra del suo studio per salutare i bambini della comunità che stavano lo festeggiando.