3 giugno 2012
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Biografia di Alberto Tomba
• Bologna 19 dicembre 1966. Ex campione di sci alpino. Vinse una coppa del Mondo generale (1995), quattro di slalom (1988, 1992, 1994, 1995) e quattro di gigante (1988, 1991, 1992, 1995), la medaglia d’oro in slalom e gigante alle Olimpiadi di Calgary (1988), la medaglia d’oro in gigante e d’argento in speciale a quelle di Albertville (1992), argento in speciale anche a quelle di Lillehammer (1994), medaglia d’oro in slalom e gigante ai Mondiali del 1996, bronzo in slalom nell’87 e nel 1997. «All’inizio saltavo sempre: di giorno le porte degli slalom, di notte le finestre degli alberghi».
• «All’inizio era soprattutto il verbo, che l’atleta non sempre coniugava col soggetto: spesso inforcava la frase, quando mancavano solo due parole alla fine. Ma quel Tomba aveva una grande arma: l’autoironia. Era il primo a riderci su. Sempre. Tanto che capitava che il nuovo campione ridesse anche quando non si capiva cosa ci fosse da ridere, prigioniero di uno strano cocktail di sicurezza e infantilismo. Allora si divertiva a giocare col suo nome: “Tomba vince perché... bara e seppellisce tutti”. Dicevano i maligni: “Alberto è come i carabinieri delle barzellette”. In effetti Alberto Tomba era carabiniere, fin dalla sua prima medaglia mondiale, anno 1987, governo Craxi. E carabiniere è rimasto, strano miliardario stipendiato dagli italiani, finché la situazione non è precipitata tra il 1995 e il 1996, quando precipitarono prima di tutto le sue mutande – in un servizio senza veli che imbarazzò l’Arma – e, in seguito, la sua coppa, finita in testa al fotografo che di quel servizio era l’autore. Quando poi le mutande ricomparvero fu anche peggio: griffate da un marchio austriaco, furono esibite da Tomba in certe foto pubblicitarie. Sicché l’Arma alla fine lo disarmò, congedandolo – anche se ufficialmente fu “divorzio consensuale” – con il grado di maresciallo. Ora, questa parabola della divisa – Tomba in alta uniforme nella parata sulla Quinta Strada a New York e Tomba che tira fuori il tesserino per giustificare un eccesso di velocità alla polizia della Florida, “sono un graduato come voi” – è un po’ il succo della sua storia, partita da una famiglia di provincia e alla famiglia ritornata: l’esemplare storia di un italiano medio, roba da Alberto Sordi, storia di grandi glorie e piccole meschinità. Tomba nazionalpopolare più del Festival di Sanremo, precipitato della cultura di massa del Paese, anche per via della sua favola da emigrante di lusso al contrario: Tomba padano, montano per forza, per sforzo, quando lo sci italiano parlava solo tedesco e lui, Pasta Kid, bolognese grande e grosso, veniva tenuto ai margini della comitiva. Un tecnico gli disse che dall’Appennino non poteva venire nulla di buono, dimenticando un tale Zeno Colò; un compagno di squadra dal cognome pieno di consonanti gli appioppò il nome di Scipione l’Africano, che era un modo per dire “terrone” a uno sciatore di pianura. Ma Tomba incassò tutte le vincite e le rivincite e anche un posto nell’immaginario collettivo, tra successi olimpici e amorosi, tra le medaglie d’oro e la Colombari. Tomba in fondo è stato un eroe pop. Ha sempre declamato a voce alta gli stessi sogni di quelli che l’hanno sognato, tifato, invidiato, forse perché il suo triangolo di vitellone in Bermuda è sempre stato Ferrari, discoteca e gnocca» (Cesare Fiumi).
• «La sua prima vittoria, alla Montagnetta di San Siro. La gara di parallelo (con i due sciatori che scendevano fianco a fianco) che si correva a Milano. Un pischellino che li batté tutti. Sembra un racconto di Natale quel filmato: i campioni della Nazionale italiana di sci sconfitti, a uno a uno, da un giovanottino della squadra B» (Antonio D’Orrico) [Set 31/01/2014].
• «Portavo il numero 9 sul pettorale, il numero è bestiale, perché ho iniziato col numero 9 e ho finito col numero 9 a Crans Montana nel 1998. I miei numeri sono quelli dispari. L’uno, il tre, il sette, il nove, l’undici. I numeri pari non sono buoni, fa eccezione solo il 6».
• Scaramantico, lasciava la barba lunga alla prima manche e se la tagliava alla seconda: «Ai Mondiali di Sestriere 1997 stavo malissimo, non volevo fare la seconda manche. Hanno insistito. Avevo 38, 39 di febbre. Allora ho cambiato la tuta, mi sono fatto la barba, sono tornato nuovo, anche se continuavo a non stare bene. Mi sono caricato, e sono arrivato terzo da settimo che ero».
• «Adesso dicono che sono diventato un cinghiale, un baule (…) Se oggi ci sono quattro giornalisti a bordo pista, quando correvo io ce n’erano quaranta. Erano i bei tempi quando in Italia portavo via le pagine dei giornali al calcio, una cosa mai vista, i bei tempi quando la Rai interruppe addirittura il festival di Sanremo per seguire in diretta la mia gara alle Olimpiadi di Calgary. Cosa mai accaduta e che, forse, non accadrà mai più”» (a Antonio D’Orrico) [Set 31/01/2014].
• «Avrei potuto fare un break di due anni e poi ricominciare ma al momento ero stanco, stressato. Avevo tutti contro, persone che volevano farsi grandi alle mie spalle. E così finì a fischi e a fiaschi. Mi riferisco al fisco, alla storia delle tasse non pagate. Gestire quelle cose a vent’anni non è facile, non c’era il papà dietro. Un atleta di qualcuno deve potersi fidare. Mi sono fidato e amen».
• «Ho i piedi piccoli. Porto il numero 43, gli altri sciatori avevano numeri tipo il 47».
• «Difficile scegliere un’emozione tra le tante che ci ha trasmesso l’Alberto nazionale. Il gigante in Alta Badia del 1994, quello che rimase famoso non soltanto per le magiche evoluzioni di Tomba, ma anche per la sua esultanza spontanea, sul parterre, in compagnia di Yukon, il suo husky siberiano amico per la pelle» (Gabriella Mancini).
• «A volte sul cancelletto di partenza facevo qualche battuta per superare i momenti critici. Una volta Girardelli la fece a me, ma non abboccai. Tra la prima e la seconda manche c’era una ragazza che era venuta a salutarci e a chiederci l’autografo. Lui mi prendeva in giro per farmi agitare. Ma nulla cambiò. Io ero primo dopo la prima manche e primo sono rimasto. Lui secondo. Era l’Olimpiade di Albertville, Girardelli ci teneva da matti. Se vincevo la prima manche non ce n’era per nessuno. Soltanto qualche volta ho fallito».
• «Mi piace tuffarmi, anche da una certa altezza. Ma anche il mare per me è legato allo sci. Da piccolini mio padre portava me e mio fratello all’Elba e quando il mare era un olio ci faceva fare delle grandi sciate col gommone. Papà ci faceva correre anche in moto. Ho fatto tanto motocross. Ed ero spericolato anche lì. Dicevano che ero un fifone perché non facevo la discesa libera ma solo il gigante e lo slalom. Era una balla. A me piace rischiare» (ad Antonio D’Orrico).
• Nel 2000 una prova cinematografica, in Alex l’ariete (regia di Damiano Damiani), film che, soprattutto sul web, è diventato un cult per le molte scene di involontaria comicità. «L’idea era: prendiamo un carabiniere tonto e una donna snob (Michelle Hunziker, ndr), li ammanettiamo e lui diventa il Bud Spencer della situazione in modo da evitare ogni forma di recitazione» (Dardano Sacchetti, lo sceneggiatore).
• Nel 2014 opinionista per Sky alle Olimpiadi di Sochi.
• Nel 2009 uscì la sua autobiografia Prima e seconda manche (Sperling & Kupfer) scritta con Lucilla Granata.
• «Sono una persona semplice, senza tragedie esistenziali, senza traumi sentimentali. Non sarò mai uno che fa cultura. Io faccio il mio, non scrivo editoriali. A un libro di Umberto Eco preferisco un disco di Michael Jackson».
• Una passione per il poker. Anche se confessa: «Non riesco a stare fermo otto ore, inchiodato a un tavolo da gioco».