Marco Ferrante, Il Messaggero 03/06/2012, 3 giugno 2012
UNA POSTAZIONE DI LAVORO? ALLO STATO COSTA DIECI VOLTE DI PIU’
I commercialisti italiani propongono – un po’ provocatoriamente un po’ no – un’Agenzia delle uscite con poteri sanzionatori per costringere la pubblica amministrazione a procedere con i tagli alla spesa. E persino il leader di Rifondazione comunista Paolo Ferrero è disponibile a ragionare su proposte selettive di tagli. Il ministro per i rapporti con il parlamento Piero Giarda, autore di un rapporto sulla spesa pubblica, dice che è possibile incidere su uno stock di 100 miliardi. Ma sul fronte della spending review, nelle prossime settimane vedremo presumibilmente solo dei primi aggiustamenti per fare un po’ di cassa. Il governo vorrebbe riuscire a sostituire l’aumento dell’Iva con i tagli, ma è molto difficile. Al momento le stime sul lavoro del commissario Bondi valutano in 4 miliardi l’obiettivo massimo per quest’anno. Esistono ragionevolmente degli spazi per fare di più? Ovviamente sì, esistono. E infatti Giarda ha chiesto ai ministri di indicare tagli strutturali e permanenti per i prossimi tre anni.
La spesa pubblica
La nostra spesa pubblica è pari a 800 miliardi di euro circa, oltre il 50 per cento del pil. In questa massa ci sono margini per tagliare la spesa e di conseguenza per alleggerire la pressione fiscale: basti pensare che ancora nel 1980 la spesa pubblica era solo il 41,4% del pil, il 36,9 al netto degli interessi. Come si arriva a tutti questi soldi? Leggiamo una tabella del rapporto elaborato da Giarda e reso pubblico a marzo. La prima voce sono i cosiddetti consumi pubblici, 328 miliardi nel 2010. Poi le pensioni, 240 miliardi nel 2010 (30% del totale della spesa a cui bisogna aggiungere i trasferimenti alle famiglie). Poi le spese per interessi, 70 miliardi (che superano ormai stabilmente le spese per gli investimenti, solo 53,9 miliardi nel 2010).
Sulle pensioni si è intervenuto con una riforma che produrrà risparmi a regime nei prossimi anni e che però in una stagione recessiva sta creando qualche problema alle aziende in ristrutturazione. La riforma corregge alcuni aspetti di un andazzo terribilmente generoso. È sufficiente un dato: dal 1980 al 2008 il valore medio annuo di una pensione – ai prezzi del 2000 – è passato 5.000 a 8.200 euro, con un ritmo di crescita superiore a quello del Pil. Terza voce, le spese per interessi. Dipendono dall’andamento del mercato, dalle aste dei titoli pubblici e sono influenzate dalla capacità dello stato di ridurre e sostenere il debito.
Stipendi e servizi
Così la voce su cui ci sono più margini è quella dei consumi pubblici, stipendi, spesa per beni e servizi, trasferimenti alle regioni. Per una specie di tabù federalista, i trasferimenti alle regioni erano stati esclusi dall’attività della commissione Bondi, anche se Giarda dice che gli enti locali saranno interessati dall’azione di revisione del governo. Idem gli stipendi pubblici. Sui quali c’è una nota interessante da fare. Valgono oltre 150 miliardi di euro. In teoria la dinamica delle retribuzioni sarebbe sterilizzata dal blocco del turn over e dal congelamento degli aumenti. Ma, come spiega Gilberto Muraro, professore di Scienza delle Finanze a Padova, il quale presiedette la commissione per la riforma della finanza pubblica istituita dall’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, «in passato lo stop al turn over è stato aggirato dal ricorso ai precari, e gli aumenti bloccati vanificati dal ricorso alle promozioni. Segnali di allarme per il futuro».
I tagli possibili
In che ambito si può cercare di ridurre i cosiddetti consumi pubblici? «Premesso che i tagli per essere permanenti devono essere strutturali, quindi non devono rispondere a una logica istantanea, cioè tagli immediati che assomigliano a una molla compressa. Ci sono quattro cose su cui si può lavorare. La prima è il personale. Mandare in pensione quelli che si possono mandare in pensione (la riforma è un problema da questo punto di vista), prendere oculatamente dei giovani quando servono». E qui gioca un ruolo significativo il vincolo della non licenziabilità, con tutto il dibattito di questi ultimi mesi sull’applicabilità dell’articolo 18 al settore pubblico. Secondo una stima elaborata dal ministero dell’Economia le eccedenze di personale nella pubblica amministrazione potrebbero arrivare a quasi 300.000 unità. E solo il ministero della Difesa ha avviato un piano organico di riduzioni.
«Seconda questione – continua Muraro – lavorare sulle procedure della P.A. Esempio: l’allungamento della validità della carta di identità da 5 a 10 anni è di per sé un episodio banale ma efficace, per capire come si può tagliare strutturalmente la spesa pubblica pensando che nelle procedure amministrative ci sono centinaia di casi in cui il cambiamento implica una riduzione strutturale del lavoro e quindi del fabbisogno del personale». Restando nel ramo dei documenti di identità, ecco un altro minuscolo esempio: per ottenere un permesso di espatrio per un bambino bisogna produrre un certificato di nascita, ma il certificato di nascita online – dice una nota che viene stampata in calce al documento – «non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione». Dunque per ottenere fisicamente un documento dall’ufficio x devo chiedere fisicamente un altro documento all’ufficio y. Basta moltiplicare per 23 milioni di famiglie e 5 milioni di imprese una procedura di questo tipo e ci rendiamo conto quanto è inutilmente impegnato il personale della P.A.
Dice ancora Muraro: «C’è un terzo ambito di intervento. La razionalizzazione degli uffici. Accorpamento di tribunali, prefetture e di tutti gli uffici che ora agiscono su base provinciale». C’è un dibattito sulla duplicazione orizzontale delle competenze, basti pensare per esempio alle funzioni che si intrecciano o si sovrappongono nella gestione delle finanze, tra Ministero, agenzie delle Entrate, Demanio, Territorio, Monopoli, Sogei, Equitalia, Consip. Qual è il quarto campo di interventi possibili? «Il risparmio sugli acquisti di beni e servizi – spiega Muraro – quel fenomeno per cui come abbiamo visto in questi giorni una siringa può costare 100 a Palermo e 50 a Milano. Perché queste discrepanze? Bisognerebbe allargare l’ambito di applicazione degli acquisti centralizzati, quelli che passano attraverso Consip».
Il privato costa meno
Nelle pieghe della spesa pubblica ci sono fenomeni notevoli. Sul numero di dicembre scorso della rivista del pubblico impiego del Sole 24 Ore Francesco Verbaro, già segretario generale del ministero del lavoro e direttore dell’Ufficio personale della Funzione Pubblica, scrive che una postazione lavoro nella pubblica amministrazione – fatta di affitti, attrezzature, manutenzione, eccetera – ha un costo molto più alto dell’equivalente nel privato. Presso le aziende di servizi che fittano postazioni di lavoro a Roma, se ne possono trovare a 700-800 euro al mese. «Per il pubblico il costo si aggira fino a dieci volte tanto», scrive Verbaro. Cioè si prendono in affitto immobili troppo cari, si comprano materiali a prezzi troppo alti, si pagano contratti di pulizia e manutenzione al di sopra dei valori di mercato. I margini di risparmio potenziali sono molto alti.
Se si riuscisse a intervenire con precisione su personale, acquisti, organizzazione degli uffici, sarebbe possibile tagliare del 2-3% quegli 800 miliardi di spesa pubblica e ridurre di conseguenza la pressione fiscale. Ricordiamo che la detestata Imu ha un gettito tutto sommato relativo rispetto alle grandi imposte come Iva e Irpef. Si stimano poco più di 20 miliardi di euro, appunto circa due punti e mezzo sul totale della spesa pubblica.