3 giugno 2012
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Biografia di Alfonso Sabella
• Bivona (Agrigento) 21 novembre 1962. Magistrato. Dal gennaio 2014 vice capo Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi. Non si è mai iscritto ad alcuna corrente dell’Associazione Nazionale Magistrati.
• Figlio di avvocati, quando lavorava nello studio dei genitori si fece notare per l’interpretazione di una norma che consentì di mandare assolti tutti i cacciatori di frodo (in mancanza di una legge sulla caccia: la sua tesi farà giurisprudenza, e lui diventerà l’avvocato dei cacciatori).
• Divenuto magistrato e assegnato alle funzioni di sostituto procuratore a Termini Imerese, nel 93 viene trasferito su sua richiesta presso la Procura di Palermo. Si specializza nella caccia ai latitanti mafiosi e spunterà dalla lista nomi celebri: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Vito Vitale, tra i gregari Enzo Brusca, Pino Guastella, Pietro Romeo.
• Nel 99 viene distaccato al ministero di Giustizia come magistrato di collegamento con la commissione Antimafia, e assume il doppio incarico come capo dell’ufficio dell’ispettorato del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dallo stesso anno diretto da Gian Carlo Caselli). Nel 2000 i mafiosi si fanno venire l’idea di dissociarsi da Cosa Nostra come un tempo i terroristi (vedi Pietro Aglieri), e chiedono pure di fare un summit in carcere, ma Sabella ha con sé tutti i dati informatizzati di sei anni di indagine a Palermo, e gli basta usare la funzione di ricerca nel suo computer per trovare il verbale di un’intercettazione, ai tempi irrilevante, adesso fondamentale per provare che da anni i boss discutevano del progetto, al fine di ottenere benefici carcerari col minimo sforzo (ammettere l’evidenza, cioè essere mafiosi, ma senza collaborare con la giustizia). Carte alla mano fa bloccare l’iniziativa in pieno accordo con Gian Carlo Caselli. «L’unico risultato concreto sarebbe stato il crollo delle collaborazioni di giustizia e la possibilità per diversi boss di uscire dal carcere prima del tempo». Nel 2001 il nuovo capo del Dap Giovanni Tinebra (ex procuratore della Repubblica di Caltanissetta) è favorevole a una normativa che estenda l’istituto della dissociazione ai mafiosi, e tra i mafiosi detenuti ricomincia il passaparola dell’anno prima. Sabella segnala l’opportunità di allertare la polizia penitenziaria al fine di evitare contatti anche casuali tra i boss coinvolti nell’iniziativa, e dopo sei giorni viene il suo ufficio viene soppresso e lui viene trasferito a Firenze (la sua richiesta al CSM di trasferimento a Roma non trova accoglimento, ufficialmente, perché non ci sono posti). Il prefetto di Firenze Achille Serra convoca d’urgenza il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica per revocargli la scorta, salvo mantenergli la “tutela” (protezione da parte di un solo uomo), ma solo nel territorio fiorentino. Tutto è partito dal direttore del Dap, Tinebra, che ha comunicato l’indisponibilità di uomini della polizia penitenziaria per la sua scorta, quando il Cosp di Roma, due settimane prima, aveva confermato la scorta con due auto e quattro uomini, ritenendo Sabella un obiettivo ad alto rischio. Qualche mese dopo si scopre che Leoluca Bagarella aveva firmato l’ordine di uccidere un magistrato, molto probabilmente proprio Sabella. Tanto che il presunto capomafia di Bivona (dove Sabella è nato e dove vivono i suoi genitori), stringe platealmente la mano a suo padre in un bar, come a dirgli di non avere dato l’assenso all’omicidio (i due non si erano mai guardati in faccia).
• Ottiene solo nel 2005 il trasferimento a Roma, dove rimane, con le funzioni di giudice penale, fino al 2011, quando assume l’incarico di direttore generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi DAP. Dal 2003 al 2006 è consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’affare Mitrokhin. Nel gennaio 2014 viene nominato vice capo Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi.
• Durante il suo secondo incarico al Dap, oltre a cercare di ridimensionare il fenomeno dell’emergenza carceri (rilevando che molti spazi sono chiusi o sottoutilizzati), scrive un dossier sul Piano carceri presentato alla Camera il 22 ottobre 2013 dal Commissario Straordinario per l’edilizia penitenziaria Angelo Sinesio (già capo della segreteria tecnica del ministro Cancellieri), denunciando «dati non corretti e circostanze non veritiere», «il non fruttuoso impiego di risorse pubbliche» e anomalie nelle gare, «con ribassi palesemente fuori mercato» (valore del Piano Sinesio: 470 milioni di euro). In seguito alla sua denuncia la Procura di Roma ha iscritto nove indagati (tra cui lo stesso Sinesio), per i reati falso, abuso d’ufficio e corruzione. Sinesio è anche accusato di diffamazione ai danni di Sabella, per averlo accusato ingiustamente di inefficienza e incapacità, proprio mentre presentava il Piano alla Camera.
• Nel novembre 2009 Marco Travaglio gli ha dedicato un servizio in due puntate sul “fatto quotidiano”, dal titolo Alfonso Sabella, un giudice stritolato dalla Trattativa, in cui il magistrato, finalmente, dice tutto, pane al pane e vino al vino, a partire dalla soppressione del suo ufficio al Dap nel 2003: «Siccome era, secondo me, illegittima perché poteva deciderla soltanto il ministro, scrissi a Castelli, ma questi mi mise alla porta. E lo stesso fece di lì a poco il Csm. Capii quanto era debole un magistrato come me, mai iscritto ad alcuna corrente organizzata della magistratura. Avevo chiesto di essere trasferito alla procura di Roma, dove mi ero stabilito da meno di tre anni. Ma il Csm mi rispose che a Roma non c’erano posti e mi trasferì a Firenze. Poi, proprio il giorno dopo, lo stesso Csm applicò alla procura di Roma ben due magistrati più giovani di me: la prova che a Roma non c’era posto, ma solo per me. Oggi, ripensando a quei mesi incredibili alla luce del papello, ho scoperto ciò che mai avrei immaginato: e cioè che già nel 1992 Cosa Nostra aveva chiesto una legge per la dissociazione dei boss. Così ho maturato una serie di riflessioni pressoché obbligate: con i miei ‘no’ alla dissociazione, avevo ostacolato per ben due volte un disegno molto più grande di me, che passava sulla mia testa e rimontava alla trattativa del 1992. Una trattativa mai interrotta (o forse una trattativa con Riina interrotta dalla strage di via D’Amelio ma subito proseguita, stavolta positivamente, con Provenzano). Infatti, fra i vari punti del papello, molti dei quali francamente inaccettabili persino per uno Stato arrendevole come il nostro, il meno irrealizzabile (dopo la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, poi disposta dal governo di centrosinistra nel 1997) era proprio la dissociazione. Che, da sola, avrebbe consentito allo Stato di esaudire indirettamente quasi tutti gli altri: la fine dell’ergastolo, la fine del pentitismo, la fine del 41 bis, la revisione delle condanne». Sabella torna anche sul G8 organizzato a Genova nel 2001, dove viene incaricato di coordinare l’attività dell’Amministrazione penitenziaria in vista dei prevedibili arresti dei black bloc. Le torture consumate nella caserma di Bolzaneto sono fatto noto. Responsabili anche alcuni militari al servizio del GOM, il corpo speciale della polizia penitenziaria, e Sabella viene indagato dalla procura di Genova per non avere impedito le violenze. Lui in realtà era all’oscuro di tutto, trovandosi nella caserma di Forte San Giuliano, dove non è successo niente («Dico la verità, quel giorno maledetto commisi un errore di valutazione. Non mi accorsi che il piano per gli arresti preventivi, a scopo di sicurezza, fu modificato in corso d’opera forse proprio allo scopo di aizzare gli animi, soffiare sul fuoco e far esplodere gli scontri. Altro però non posso rimproverarmi»). Per dimostrarlo chiede invano di acquisire i tabulati dei quattro telefoni cellulari che usava quel giorno, alla Procura di Genova, che invece archivia senza svolgere indagini. Sabella si oppone all’archiviazione ottenendo l’acquisizione dei tabulati da parte dei carabinieri, che all’esito degli accertamenti rilevano la cancellazione del traffico relativo alla ‘cella’ territoriale a cui erano agganciati tutti e quattro i suoi cellulari. «Non so chi avesse manomesso quei dati, ma in ogni caso era facilissimo localizzarmi: dove mi trovavo nelle ore delle violenze risultava dai tabulati delle chiamate in entrata, cioè delle telefonate che ricevevo in quel mentre. Visto che non lo faceva l’Arma, ricostruii tutti i miei movimenti e dimostrai che, quando ero a Bolzaneto, non c’era stata alcuna violenza contro detenuti. Ma, nonostante le mie carte parlassero chiaro, il giudice se n’è infischiato e ha emesso un provvedimento di archiviazione infamante: sostenendo, cioè, che ero responsabile delle violenze, ma per colpa e non per dolo. Una tesi giuridicamente aberrante, fra l’altro, visto che le lesioni sono punibili anche quando sono colpose. E allora perché non mi ha rinviato a giudizio per quel reato? Così almeno avrei potuto dimostrare la mia estraneità nel dibattimento. Invece, a quell’archiviazione di fango, non ho potuto nemmeno oppormi: è inappellabile». Il Csm, nel frattempo, ha bloccato il suo avanzamento in attesa della definizione del procedimento di Genova. «Feci presente al Csm che i pm non avevano indagato a fondo e chiesi al procuratore generale della Cassazione e all’Ispettorato del ministero di aprire un procedimento disciplinare contro il gip che mi aveva archiviato in quel modo scandaloso. Produssi anche alla IV Commissione del Csm una memoria dettagliata dove dimostravo tutto per tabulas, con vari atti allegati, perché fossero valutati nel decidere del mio avanzamento in carriera. Ma non ci fu nulla da fare. Un muro di gomma dopo l’altro. La mia carriera in magistratura è stata definitivamente compromessa con una delibera del Csm che ignorava totalmente i miei meriti di magistrato antimafia, ma anche la mia memoria sui fatti di Genova, sulle stranezze presenti nei miei tabulati telefonici e sulle omissioni dei colleghi. Il 27 febbraio 2008, vado a riprendermi le carte che avevo prodotto sui fatti di Genova. Le cerco nel mio fascicolo personale al Csm. Sparite. Lo stesso giorno presento un’istanza per sapere dove sono finite e se sono state valutate nella pratica sulla mia promozione: scoprirò che sono state archiviate ed espunte dal mio fascicolo con una decisione adottata dall’Ufficio di presidenza del Csm, con a capo il vicepresidente Nicola Mancino. Che combinazione: ritrovo Mancino dieci anni dopo che Brusca mi aveva parlato di lui in quel verbale secretato». La stessa sera di quel 27 febbraio il Csm viene comunica all’Ansa la notizia, falsa, che lui si è candidato alle elezioni politiche nel Pdl, in quota Alleanza nazionale. Di lì a poco Giovanni Bianconi scrive sul Corriere della Sera che Sabella compare nei dossier di Pio Pompa: «l’analista del Sismi ai tempi in cui il servizio segreto militare era legato mani e piedi alla security della Telecom. E, si badi bene, il mio nome compariva accanto a quello di altri magistrati antimafia di Palermo. Ma accanto al mio non c’è la sigla “Pa”, bensì la sigla “Ge”. E io a Genova ci sono stato solo nei giorni del G8. E guarda caso usavo schede Telecom. E, guarda un po’ la combinazione, qualcuno ha cancellato i tabulati che mi scagionavano dai fatti di Bolzaneto. E tutto questo il Csm lo sapeva (o perlomeno doveva saperlo), avendo ricevuto subito le informative sui magistrati spiati dal Sismi. Ma nessuno mi aveva detto nulla, tant’è che l’ho appreso dai giornali. Oggi mi domando: qualcuno voleva levarsi dai piedi il sottoscritto al Dap per spianare la strada alla dissociazione, ultima versione della trattativa (o meglio dell’accordo) del 1992? Sono paranoico, oppure sono autorizzato a farmi certe domande?». • Intervenendo alla presentazione del libro Il patto, di Nicola Biondo e Sigrifdo Ranucci, il primo febbraio 2010, dice che della trattativa Stato-Mafia si sapeva tutto già dieci anni prima, anzi, dodici. Sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio: «Non ho mai creduto che Pietro Aglieri fosse il responsabile dell strage di Via D’Amelio. Pietro Aglieri è stato condannato sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Scarantino era il pentito di cui mi occupavo io a Palermo. È stato sempre dichiarato inattendibile, non l’ho mai utilizzato nemmeno per gli omicidi che confessava. Il dottor Tinebra l’ha utilizzato fino in fondo fino ad ottenere delle sentenze passate in giudicato. Io lo dicevo su una base logica. La strage di Via D’Amelio è talmente delicata che se l’ha fatta Riina, la doveva commissionare per forza ai suoi uomini più fidati, ovvero ai fratelli Graviano. Non poteva commissionarla a un uomo di Provenzano che è Pietro Aglieri» (vedi Gaspare Spatuzza, Vincenzo Scarantino). Sulla mancata perquisizione al covo di Totò Riina (vedi scheda): «Io con le cose che ho trovato in tasca a Bagarella ci ho arrestato 200 persone. Mi chiedo: che cosa si poteva fare con quello che avremmo trovato a casa di Salvatore Riina? Stiamo parlando del capo dei capi di Cosa Nostra. Questa è una cosa che nessuno sa, una chicca. La certezza che quella casa fosse la casa di Riina si è avuta soltanto per caso, perché non c’era alcuna prova, avevano imbiancato tutto, con i Carabinieri del Ros che avevano assicurato che avrebbero controllato quel covo con le telecamere. La certezza si è avuta soltanto perché in un battiscopa era finito un frammento di una lettera che Concetta Riina, la figlia di Riina, aveva scritto a una compagna di scuola. Soltanto per caso. È l’unica cosa che si è trovata. (…) Non è una cosa da sottovalutare. Perché secondo me è la chiave di lettura del patto che è raccontato in questo libro. Ovvero un patto che viene stipulato, concluso, sottoscritto. Mi assumo le mie responsabilità di quello che dico: patto da cui verosimilmente si determina la morte di Paolo Borsellino, perché Paolo Borsellino molto probabilmente viene ucciso a seguito di questo patto».
• A di fuori del lavoro, passione per l’Inter e per la cucina. (a cura di Paola Bellone).