3 giugno 2012
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Biografia di Paolo Sorrentino
• Napoli 31 maggio 1970. Regista. Scrittore. Premio Oscar 2014 per il miglior film straniero con La Grande Bellezza (vincitore anche del Golden Globe, dell’inglese Bafta e di quattro European Film Awards). Gli altri suoi film: L’uomo in più (2001, Nastro d’argento miglior regista esordiente), Le conseguenze dell’amore (2004, David di Donatello miglior film, regista e sceneggiatura), L’amico di famiglia (2006), Il divo (2008, film su Giulio Andreotti, interpretato da Toni Servillo, premio della Giuria a Cannes), This must be the place (2011, in concorso a Cannes, con Sean Penn). «I buoni mi annoiano, dei cattivi mi innamoro».
• «Figlio di Sasà, dirigente bancario, e di Tina, casalinga, Paolo Sorrentino rimane senza genitori a diciassette anni. Studia al liceo classico dei salesiani e sogna di diventare un economista, si iscrive alla facoltà di Economia e commercio, arriva quasi alla laurea ma alla fine lascia per dedicarsi al cinema. Nel 1993, quando Bassolino diventa sindaco e crea dei nuovi luoghi di aggregazione per i giovani, si unisce al gruppo napoletano formato da Mario Martone, Pappi Corsicato e Antonio Capuano. “Avevo iniziato a scrivere storie come autodidatta: ho comprato i manuali di sceneggiatura di Massimo Moscati in libreria, partecipavo ai concorsi per i cortometraggi. Con Ivan Cotroneo, scrittore e traduttore, mio vicino di casa, a diciotto anni abbiamo scritto il primo, per il festival di Bellaria, si chiamava Luoghi comuni: ambientato nell’aldilà, immaginavamo che Marx, Nietzsche e Gesù si trovassero nello stesso appartamento a parlare di Dio” (...) Gli racconto che Dino Risi parla di lui come il più bravo dei registi trentenni, lui gradisce, si imbarazza, poi subito sdrammatizza: “Glielo racconti tu che i miei film di formazione, quelli che ho rivisto mille volte, sono quelli del meraviglioso Fantozzi?”» (Da Registi d’Italia, Rizzoli 2006).
• «A 36 anni, me ne sono andato da Napoli. Non avevo mai compiuto una scelta di indipendenza che fosse una. Sempre nella stessa casa, dal primo giorno. Mi trascinavo pigramente ancorato a legami violenti, quasi ancestrali. In più Napoli non è un luogo normale. Devi affrontare la vita con una dose di coraggio non indifferente e io, confesso, sono stato sempre un ragazzo pauroso».
• «Non mi interessano le linee rette ma le sfaccettature, gli alti e bassi. Quello che la tv non può fare. Mi sento in buona compagnia con Garrone, Crialese, Piva, Marra, Vicari, Gaglianone. Mi piace questa generazione che è uscita dal raccontare io io io. E non cinefila: la nostra genuina ignoranza sta producendo qualcosa» (da un’intervista di Paolo D’Agostini).
• «Non faccio film sui giovani, non ho mai voluto far film su persone che mi fossero vicine anagraficamente. Un po’ per formazione, per esperienza familiare, sono sempre stati gli “adulti” il mio universo di osservazione. Poi i miei temi prediletti sono la nostalgia, la malinconia, la frequentazione del ricordo e i giovani non sono neanche così predisposti ai ricordi» (a Vittorio Zambardino).
• «Prima individuo un personaggio, più che una storia. E su quello comincio a raccogliere molti appunti, anche su cose che in apparenza non hanno attinenza immediata col personaggio. Scrivo su un grosso quaderno. Quando il quaderno diventa corposo comincio a “fare delle rime fra le cose”, a cercare le assonanze. Sfrondo molto e pian piano la struttura dell’idea prende forma. Ma non disegno, non so disegnare. L’altro momento importante è quando cerco i posti dove girerò. La visione dei luoghi mi aiuta a entrare nel film, a “vederlo”».
• «Il set non mi piace. Non mi piaceva 25 anni fa e non lo amo neanche adesso. Non è un luogo, è un circo. Lo apprezzo per i 20 minuti al giorno in cui si rincorrono, a sprazzi, bellissimi momenti. Ma le giornate sono lunghe e, in fondo, il set mi somiglia pochissimo» (a Malcom Pagani).
• Molto discusso Il divo, soprattutto a causa del soggetto. «La figura più nota di tutta la storia repubblicana, milioni di volte caricaturizzata per le sue inconfondibili caratteristiche fisiche, ci appare per la prima volta nella sua enigmatica dimensione umana e nella sua statura di moderno Nosferatu. Le forzature, le invenzioni, non mancano di restituirci un ritratto denso, realistico e indimenticabile. Il massimo di deformante soggettività produce il massimo di documento. Come fu per La dolce vita» (D’Agostini). «La tesi di Sorrentino – appena dissimulata dietro il registro grottesco, scandito dalle migliori battute andreottiane (lui sì che dovrebbe essere pagato, e bene, per la collaborazione alla sceneggiatura) – si può riassumere così: il senatore era a capo di una banda criminale responsabile di parecchi cadaveri. Delitti atroci e ben congegnati: prova ne sia che la magistratura nulla ha potuto, e nulla potrà fare, per incastrarlo» (Mariarosa Mancuso).
• Quando Andreotti vide in anteprima il film, in una proiezione privata, ne fu indignato: «Non sono così cinico. Quest’opera è una mascalzonata, una cattiveria». Alla notizia della vittoria del premio della Giuria a Cannes, però, commentò: «Ha vinto un film su di me? Se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato. Sono contento per il produttore. E se avessi una partecipazione agli utili sarei ancora più contento».
• «Con La Grande Bellezza ho provato a fare il contrario di quello che fa Woody Allen nei suoi ultimi film. Lui ha un’immagine preconcetta di una città, costruita su un immaginario cinematografico codificato. Che lui riproduce pedissequamente. Un’analoga accusa mi fu rivolta, soprattutto dai critici americani, per This must be the place. Più di qualcuno lo accostò a Paris, Texas di Wenders. E dire che quando iniziai a girare mi ero detto: non devo fare gli errori di Wenders. Evidentemente sia io che Wenders avevamo visto poca America e troppi film americani. Con Roma no. Almeno di questo sono certo: il mio sguardo su Roma non è viziato dal cinema. Se non da Fellini, naturalmente. Hai presente quando, ne La dolce vita, Mastroianni e la Ekberg si inerpicano sulla scala elicoidale che conduce alle campane della chiesa? Ecco, per me quello è il luogo più misterioso dell’universo. (...) Il mio sguardo su Roma è provinciale. La parrucchiera del Minnesota in vacanza a Roma in confronto a me è una donna di mondo, una spregiudicata» (ad Alessandro Piperno).
• «I miei detrattori dicono che La Grande Bellezza è calligrafico. E mi inchiodano al mio primo film, L’uomo in più. Pensando di offendermi dicono “quello sì che era bello” e sottintendono: “per caso”, “prima che si montasse la testa”. Lo girai in fretta e senza soldi. Temevo che non mi avrebbero mai più dato la possibilità di girarne un altro e perciò ci misi le due storie che avevo in mente, due film in uno» (a Francesco Merlo).
• «Jep Gambardella (il protagonista de La Grande Bellezza, ndr) mi somiglia: è un dissipatore. Anche a me capita di trovare un buon incipit e di fermarmi lì. Ho i cassetti pieni di incipit promettenti. Credo di avere una tendenza nichilista che cerco di tenere a bada. In questo film c’è molto di me. Finisco con l’annoiarmi di tutto ciò che è profondo. Distrarmi è una delle cose che mi viene meglio. Quando sono solo e lavoro riesco a concentrarmi, ma nei rapporti sociali sono vago e superficiale» (ad Alessandro Piperno).
• Martin Scorsese a proposito de La Grande Bellezza: «Lo stile e i gesti del film hanno le loro radici nel lavoro di Fellini e degli altri grandi visionari del cinema italiano e sembrano avere colto l’immaginazione non solo dell’America. Perché La Grande Bellezza è uno spettacolo bellissimo. E anche se dura oltre due ore, non senti mai la lunghezza».
• «Sorrentino non ha minimamente tentato di fare il film che tutti pensano abbia tentato di fare, o pensano che volesse fare. Niente Dolce vita in versione aggiornata, per capirci. Ci sarebbe il solito colossale equivoco, insomma: perché il suo non è un film prettamente su Roma e cioè sull’eterna Roma da basso impero che molti aspettavano, la stessa che in qualche modo imparentava al Cafonal carnevalesco che Umberto Pizzi e Roberto D’Agostino fotografano da 13 anni, la stessa che altri cronisti di passaggio – i soliti Fellini e Arbasino tra questi – hanno affrescato in epoche diverse e al tempo stesso identiche» (Filippo Facci).
• Ricevendo l’Oscar il 2 marzo 2014: «Grazie all’Academy, a tutti gli attori, i produttori e alle mie fonti di ispirazione: Federico Fellini, Martin Scorsese, i Talking Heads e Maradona». Ha poi spiegato: «Sono quattro campioni nella loro arte che mi hanno insegnato tutti cosa vuol dire fare un grande spettacolo, che è la base di tutto lo spettacolo cinematografico».
• Quattro dei suoi sei film hanno come protagonista Toni Servillo. «Il mio innamoramento nei confronti di Servillo ha tante ragioni (la sua estrema bravura, per esempio) ma una per me è primaria. Toni mi fa molto ridere e io attribuisco una importanza fondamentale al ridere. In genere, gli attori non li amo. Si dice, retoricamente, che i registi vogliono bene agli attori perché la fragilità di queste creature li intenerisce. Non è il mio caso. Io divento cinico con gli attori, a volte cattivo. Molti di loro si comportano come se fossero ancora bambini che, alla festa di compleanno, recitano la poesia davanti ai genitori e agli zii» (ad Antonio D’Orrico).
• Ha scritto due libri, entrambi pubblicati da Feltrinelli: Hanno tutti ragione (2010, terzo al Premio Strega) e Tony Pagoda e i suoi amici (2011).
• «In letteratura esiste una libertà meravigliosa. Lo scrittore può fuggire attraverso linee e sentieri che la complessità e i limiti del cinema non possono sostenere. La digressione, almeno per me, è una delle cose per cui vale la pena vivere» (a Malcom Pagani).
• È stato anche sceneggiatore per la serie tv Rai La Squadra. «Era frustrante, c’erano condizionamenti sui contenuti, condizionamenti economici e c’erano tanti e tali paletti che tutto ti spingeva a un appiattimento, a un prodotto senza vere ambizioni».
• Sposato con la giornalista Daniela D’Antonio, due figli, Anna e Carlo.
• Vive in un attico a Piazza Vittorio, nel quartiere cinese di Roma, nello stesso palazzo di Matteo Garrone.
• Porta da sempre le basette lunghe. «Moretti mi chiamò per una piccola parte nel Caimano: “Ti devi levare le basette, però”. Risposi: “Senti, Nanni, allora non se ne fa niente”. Trovammo un compromesso: me le tagliò ma pochissimo» (Antonio D’Orrico).
• Fuma sigari toscani, ha smesso con le sigarette.
• Accanito tifoso del Napoli.