3 giugno 2012
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Biografia di Giuliano Tavaroli
• Albenga (Savona) 19 giugno 1959. Manager. Capo della security Telecom, si dimise nel maggio 2005 in seguito a un avviso di garanzia, indagato dalla Procura di Milano per concorso in appropriazione indebita. Passato a dirigere la filiale romena della Pirelli, fu costretto a nuove dimissioni nel maggio 2006, indagato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali per l’acquisizione di informazioni coperte dalla privacy. Arrestato il 20 settembre 2006, fu rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Voghera e poi trasferito a Como (febbraio 2007). Dall’1 giugno 2007 agli arresti domiciliari, l’11 ottobre 2007 fu scarcerato. Il 2 ottobre 2009 patteggiò una pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione. «Perfino Gesù è stato rinnegato tre volte da Pietro, volevi che non capitasse a me?». Ex carabiniere «ha gestito per anni un grande potere grazie a una rete di relazioni nata proprio nelle caserme dell’Arma, quando era solo un maresciallo. Al comando di via Moscova il generale Dalla Chiesa guidava la riscossa dello Stato contro le Br. È all’Italtel, quando l’azienda è sotto ferreo controllo socialista, e in questo ambiente si lega tra gli altri a Roberto Arlati, altro ex carabiniere, che nel 1992 verrà arrestato dal pool come postino delle tangenti di Bettino Craxi. Dall’Italtel, Tavaroli passa alla Pirelli, dove diventa capo della sicurezza. L’ingresso in Telecom è il risultato di una spy story che vede protagonista un altro vecchio amico di Tavaroli, Emanuele Cipriani, titolare dell’agenzia investigativa Polis d’Istinto. Un rapporto solido, costruito sull’amicizia. Tavaroli e Cipriani si conoscono da ragazzi ad Albenga (Savona), la cittadina ligure dove il primo è nato. E come gli “amici del muretto” crescono dividendo fortune ed esperienze» (Paolo Biondani & Guido Olimpio).
• «Quando Tronchetti diventa azionista di riferimento della compagnia, io resto in Pirelli dove ero dal 1996. Ricordo bene quel periodo: siamo attaccati da tutte le parti. Viene trovata una microspia nell’auto dell’allora amministratore delegato Enrico Bondi, arrivano telefonate di minacce a Tronchetti. Una chiamata parte dal centralino del Sisde proprio nel momento in cui io mi trovo negli uffici del servizio segreto civile, dal generale Stefano Orlando. Intuisco subito che si tratta di un avvertimento mafioso non solo nei confronti dell’azienda. Anche verso di me. In quei mesi molte persone, anche dal Sismi, mi mandano a dire: tu a Roma non ci metterai mai piede, non mangerai il panettone. Oltretutto in quel periodo il titolo Telecom colava a picco in Borsa. I giornali ci attaccavano. Resistiamo e nel 2003 il nuovo amministratore delegato Carlo Buora mi nomina responsabile della security. In quel momento ho un presentimento: ora iniziano i miei guai...» (da un’intervista di Peter Gomez).
• «La sua gestione è caratterizzata da due radicali modifiche del “Centro nazionale autorità giudiziaria” (Cnag), l’ufficio strategico che esegue le intercettazioni per tutte le Procure. Fino al 2001 il Cnag dipendeva dall’ufficio legale di Telecom. Da allora passa alle dipendenze della Sicurezza. E viene trasferito da Roma a Milano. Per cui è proprio Tavaroli a diventare il “dominus” di tutte le intercettazioni d’Italia» (Biondani).
• «È nell’estate del 2004 che per la prima volta il nome di Giuliano Tavaroli, ex cacciatore di terroristi diventato responsabile della sicurezza Telecom, compare in un’inchiesta dei magistrati di Milano. I pm indagano sugli appalti per la sicurezza in città e scoprono un giro di mazzette che portano nel carcere di San Vittore i vertici dei gruppi di vigilanza privata Ivri e Istituto Città di Milano. Uno degli uomini intercettati parla degli arrestati e dice: “È strano che non se lo siano ancora bevuto... Tutto il vertice di Città di Milano glielo aveva assunto Tavaroli... In effetti se li hanno fottuti è perché c’hanno il 348 (un’utenza Vodafone – ndr) e non il 335 (cellulare Telecom – ndr)... Se c’hanno il 335 ’sto figlio de ’na m... de Tavaroli li avvertiva subito”. Una volta convocato in Procura l’uomo aveva spiegato che si trattava di delazioni “determinate da voci dell’ambiente e in parte da mie esperienze personali”. Gli accertamenti proseguono e in scena – e poi nel registro degli indagati – entra Emanuele Cipriani, capo dell’agenzia di investigazioni Polis d’Istinto, indagato dalla Procura di Viterbo per indagini abusive su una serie di persone grazie alla collaborazione remunerata di rappresentanti delle forze dell’ordine. Indagando su Cipriani, i pm scoprono che la Polis d’Istinto ha avuto rapporti di lavoro con la Telecom e Tavaroli. Di più, trovano un conto corrente cifrato di Cipriani alla Deutsche Bank di Lussemburgo con quasi 14 milioni di euro, pagati dall’azienda telefonica. La caccia alle fatture che possano giustificare simili pagamenti si conclude con la convinzione degli inquirenti che si possa trattare di operazioni inesistenti. E così – siamo nel maggio 2005 – Tavaroli e Cipriani vengono iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di appropriazione indebita ai danni di Telecom. Un altro capitolo si apre nel marzo 2006, quando il lavoro degli inquirenti milanesi porta a una serie di arresti per attività di spionaggio abusivo. Nel mirino degli spioni finiscono anche Piero Marrazzo, candidato del centrosinistra alle elezioni regionali nel Lazio, e la moglie. Si scopre anche la volontà di danneggiare Alessandra Mussolini, le cui firme per poter concorrere alla presidenza della Regione vengono contraffatte. In questa faccenda l’ex brigadiere non c’entra niente, ma la Procura di Milano trova in casa di un collaboratore di Cipriani un dischetto. L’analisi apre uno scenario nuovo. In quel dvd c’è una sorta di archivio – pare decine di migliaia di file – di un’attività di intelligence, forse abusiva, che il responsabile dell’agenzia investigativa ha svolto: schedature di manager, politici, imprenditori, gente dello spettacolo. Cipriani viene interrogato più volte e nel registro degli indagati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali per l’acquisizione di informazioni coperte dalla privacy finisce anche Tavaroli» (Giovanna Trinchella). «Tavaroli inquadra la propria carriera all’interno della crisi del sistema spionistico mondiale e della comparsa di un potentissimo sistema di intelligence privato, che raccoglie e smista informazioni per le multinazionali, ormai molto più veloci e potenti degli Stati. Un sistema di “business intelligence, market intelligence, competitive intelligence” (definizioni sue). In Italia l’antenato del nuovo soggetto prende corpo ai tempi delle Brigate rosse, quando Carlo Alberto Dalla Chiesa, che ha Tavaroli nello staff, mette insieme il Nucleo antiterrorismo dei carabinieri con la security della Fiat, con la security del Pci e con la security dei sindacati. Con questa alleanza, dove contano solo le conoscenze e la capacità di analizzare correttamente tutto quello che si sa, sconfigge le Br. Quando cade il Muro di Berlino (1989), i servizi di sicurezza di tutto il mondo entrano in una crisi profondissima: è venuto meno un partner fondamentale, uno di quelli su cui poggiava tutto il sistema delle securities pubbliche, cioè il Kgb. È il momento in cui entra in scena da protagonista la rete spionistica privata mondiale. Dice Tavaroli: “Si crea un nuovo mercato. Comincia lo scambio delle figurine tra security private e servizi segreti. La parola d’ordine convenuta è ‘diamoci una mano’”. Ancora Tavaroli: “L’azienda di Stato Italtel aveva dopo il 1989 150-200 uomini in Urss e agiva con i governi delle singole repubbliche dell’ex blocco sovietico. Il Sismi invece faticava per infiltrare anche un solo uomo oltre confine. Chi contava di più? Chi poteva avere più informazioni?”. La débâcle dei servizi segreti pubblici è totale l’11 settembre 2001: le torri vengono abbattute e i servizi segreti di tutto il mondo non sono in grado di prevedere niente. Il quadro perciò sarebbe quello di un sistema spionistico privato planetario, in cui si costruiscono dossier su chiunque capiti a tiro perché non si sa mai a chi converrà “dare una mano”, secondo l’espressione dello stesso Tavaroli. In questo sistema – che l’inchiesta di Milano non potrebbe intaccare e non ha intaccato – i vertici delle aziende in cui operano le securities sono barche che galleggiano sul pelo dell’acqua e che del gran vorticare in corso negli abissi non percepiscono (non possono percepire, non devono percepire) che qualche onda di forza modesta. Risulta ai tre pm milanesi, ed è riferito nell’“Avviso di chiusura indagini” di 371 pagine, che Tavaroli costituì un’associazione a delinquere formata da 26 dei 34 indagati; che con questa associazione a delinquere corruppe pubblici ufficiali dei ministeri dell’Interno, della Giustizia e delle Finanze affinché fosse possibile prelevare dati dai relativi archivi. Le violazioni appurate sono novemila. Le società su cui sono stati costruiti corposi file informativi sono 350. Le persone su cui Tavaroli ha potuto mettere insieme un dossier almeno quattromila. Per esempio: il calciatore dell’Inter Bobo Vieri, il banchiere Cesare Geronzi, il capo del Codacons Carlo Rienzi, il vicedirettore del Corriere della Sera Massimo Mucchetti e l’allora amministratore delegato di Rcs (poi in Vodafone) Vittorio Colao, Fulvio Conti, Al Walid, Moggi, il segretario dell’Udc Cesa, Ruggero Jucker (venuto alla ribalta solo per aver ammazzato la fidanzata), la moglie di Tronchetti Afef e il di lei fratello, Carlo De Benedetti e Gnutti, Formigoni e Dell’Utri, eccetera eccetera. Chiunque perché chiunque poteva servire» (Giorgio Dell’Arti).
• A leggere il documento che nel luglio 2008 ha annunciato la chiusura delle indagini del pubblico ministero di Milano sembra «che fossero all’opera, in Telecom, soltanto un mascalzone (Giuliano Tavaroli) e un paio di suoi amici d’infanzia (Emanuele Cipriani, un investigatore privato, e Marco Mancini, il capo del controspionaggio del Sismi). La combriccola voleva lucrare un po’ di denaro per far bella vita e una serena vecchiaia. I “mascalzoni” avrebbero abusato dell’ingenuità di Marco Tronchetti Provera (presidente) e di Carlo Buora (amministratore delegato). Tutto qui» (Giuseppe D’Avanzo). Tavaroli ha fornito allo stesso D’Avanzo una diversa versione dei fatti: «Nessuno avrà interesse a celebrare il “processo Telecom”. Nessuno: né i pubblici ministeri, né gli imputati, né la Telecom vecchia, né la Telecom nuova. Ma io non sono e non farò né accetterò mai di essere il capro espiatorio di questo affare. Io vorrò con tutte le mie forze il processo e nel processo vorrò vederli in faccia ripetere quel che hanno riferito ai magistrati. Il mio vantaggio è che tutti – tutti – hanno mentito in questa storia, e io sono in grado di dimostrare che le informazioni che ho raccolto sono state distribuite in azienda perché commissionate dall’azienda e nel suo interesse...».
• «Qual è la verità di Giuliano Tavaroli? Quella raccontata in Procura, dove i vertici di Telecom sembravano non avere mai la consapevolezza di quanto il loro capo della sicurezza combinava con amici investigatori e dei servizi? O quella ripetuta ai giornali in varie interviste dove invece l’ex presidente Marco Tronchetti Provera e l’ex ad Carlo Buora vengono descritti come i committenti della sua attività di spionaggio illegale? A quale Tavaroli bisogna credere?» (Paolo Colonnello).
• «Pochi giorni prima dell’arresto, a Panorama aveva detto a mo’ di battuta: “Vado in carcere su richiesta del sostituto procuratore D’Avanzo”. Ora proprio con il suo grande accusatore ha deciso di fare nomi e cognomi di un presunto “network eversivo” vicino al centrodestra che lui avrebbe provato a contrastare, di fantomatici conti londinesi della dirigenza dei Ds. Per sparare a palle incatenate ha scelto chi gli offriva la migliore bocca da fuoco. Il disegno di Tavaroli resta imperscrutabile. Di certo, come ha detto, non vuole pagare da solo. E la piena assoluzione della vecchia dirigenza, ufficializzata dall’avviso di conclusione delle indagini firmato dalla procura di Milano, non sembra soddisfarlo» (Giacomo Amadori).
• Tavaroli sostiene di essere stato «messo in mezzo» per aprire la strada all’inchiesta Abu Omar. Era il “signore della sicurezza” Telecom, i pubblici ministeri dovevano intercettare gli uomini del Sismi che avevano cooperato con la Cia per sequestrare illegalmente il cittadino egiziano sospettato di essere un terrorista. Con i buoni rapporti di Tavaroli con il Sismi, l’operazione sarebbe stata a rischio. «Nelle carte c’è scritto. Dispongono la perquisizione nel mio ufficio con un unico obiettivo: rimuovermi dal mio posto nella convinzione che, se non lo avessero fatto, non avrebbero avuto campo libero per le intercettazioni dell’inchiesta Abu Omar e quindi per l’ascolto decisivo dei funzionari del Sismi. Pensavano: questo Tavaroli se ne accorge e avverte il suo amico Mancini (era il capo del controspionaggio dell’intelligence) e noi non caviamo un ragno dal buco. Così sono finito nel tritacarne...».
• Sposato con Marina, cinque figli (tre maschi e due femmine).
• Tifoso del Torino («e ho detto tutto»).
• In carcere a Como fu dirimpettaio di Olindo Romano, imputato insieme alla moglie Rosa Bazzi per la cosiddetta strage di Erba. Fu anche chiamato a testimoniare («non rivendicò mai la sua innocenza, tendeva piuttosto a giustificare quanto aveva fatto»).