3 giugno 2012
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Biografia di Marco Tronchetti Provera
• Milano 18 gennaio 1948. Industriale. Manager. Presidente (dal 2003) e amministratore delegato (dal 2011) di Pirelli & C. spa, di Pirelli & C. Real Estate spa, di Pirelli Tyre spa, ecc. Presidente di Marco Tronchetti Provera & C. spa, holding di partecipazioni che detiene indirettamente circa il 39% del capitale di Camfin S.p.A. (società ove ha ricoperto la carica di presidente sino al dicembre 2013).
• È tra i soci della Compagnia aerea italiana (Cai), la società costituita alla fine dell’agosto 2008 per l’acquisizione di Alitalia (al 2014 detiene il 2,67 per cento).
• Vicepresidente del consiglio di amministrazione di Mediobanca (candidato dai soci industriali del patto e votato anche dagli azionisti francesi).
• Membro del consiglio direttivo e della giunta di Confindustria.
• Vita «Il bisnonno era uno dei più grossi produttori italiani di vino all’inizio del Novecento. Suo figlio, il nonno di Marco, morì in guerra durante la campagna d’Africa nel 1911, tre mesi prima della nascita di Silvio, il padre di Marco. E Silvio fu il vero artefice delle fortune della famiglia. Laureato alla Bocconi quando la laurea non era un bene di massa, entrò alla Falck e qui fece una solida carriera fino a diventare direttore centrale, con una specializzazione nel settore siderurgico e in quello dell’energia. In questa fase si occupò del Consorzio approvvigionamenti metallurgici – Cam di cui diventò amministratore delegato indirizzando l’attività nella commercializzazione di prodotti petroliferi. Quando, nel 1965, decise di lasciare la Falck, pattuì come liquidazione la quota che la Falck possedeva nella Cam, di cui poi negli anni Ottanta egli acquisì il controllo. La organizzò secondo schemi moderni, e la holding fu chiamata Camfin – Cam finanziaria – e poi quotata in Borsa nel 1986. Marco si laureò nel 1971, anche lui in Economia alla Bocconi, e la sua prima esperienza fu un semestre d’apprendistato a Londra in un’azienda di trasporti marittimi. Qui capì la rivoluzione in atto in un settore complesso e sofisticato come quello della logistica, che aveva scoperto il container, e ciò gli aprì un’intuizione: i terminal per la movimentazione delle merci dovevano essere vicini all’industria. Tornato in Italia, fondò un proprio terminal a Rho, nel cuore della Lombardia produttiva, collegandolo con i porti europei. Chiamò Sogemar la nuova società, che guidò per molti anni, fino al 1986. Ma dopo il matrimonio la svolta più importante nel rapporto tra le famiglie Tronchetti e Pirelli risale al 1984. La Pirelli stava vivendo un periodo di debolezza, determinato dall’avversa congiuntura economica e dal fallimento degli accordi di espansione con l’inglese Dunlop. La Pirelli fu sostenuta (forse salvata) da una serie di ingegnerie di controllo progettate da Mediobanca, ma l’assetto era tale da esporre il gruppo a tentativi di scalata. Così Marco Tronchetti Provera “in” Cecilia Pirelli decise, in proprio e attraverso la Cam, ricca dei proventi del petrolio, di investire nella Pirelli con l’obiettivo di dare al gruppo un assetto familiare più solido ed entrò così negli equilibri del controllo del gruppo centenario. Nel 1987, poco dopo il suo ingresso nella dirigenza Pirelli, avvenne la vera incoronazione: come baluardo difensivo contro ogni attacco di potere venne costituita la Pirelli & C., società in accomandita per azioni. Un modello nel quale i soci accomandatari hanno nelle proprie mani tutto il potere. Per esplicita richiesta di Leopoldo, Marco venne elevato al rango di accomandatario. “Sarà più di un capo”, disse. Gli anni successivi Leopoldo, alla strenua ricerca – come richiedevano i tempi – di fare massa critica con un prodotto maturo come gli pneumatici, s’impantanò in sfortunate operazioni estere. Prima Dunlop, poi Firestone, poi Continental: tre fallimenti. L’ultima scalata, condotta forse con troppo tatto (i giornali tedeschi definirono Leopoldo un “italiano serio”), mise in ginocchio l’azienda, che solo alcuni anni dopo riuscirà a liberarsi dei pacchetti acquistati grazie al favorevole cambio del marco. Ed è in questo momento drammatico (1992) che “Marco Tronchetti proverà” (allusione all’errore di una conduttrice di tg che, trovandosi di fronte per la prima volta quel cognome, ne sbagliò l’accento – ndr) a risanare e rilanciare l’azienda. Egli assunse il potere e, con il suo carattere deciso e impegnativo, diede alcune svolte importanti. Puntò sull’immobiliare, trasformando le aree della Bicocca da fabbriche fumose e puzzolenti in un ridente quartiere residenziale, con teatro e università (...) Poi nel 2000 l’affare della vita: in piena new economy, i sistemi ottici Pirelli furono venduti alle americane Cisco e Corning per una cifra colossale: 4,7 miliardi di dollari. Da qui comincia la storia recente con la scalata a Telecom del 2001» (Paolo Stefanato). Sono passati all’incirca due anni da quando la cosiddetta “razza padana” ha conquistato il colosso delle telecomunicazioni: la compagine guidata da Roberto Colaninno nel frattempo si è divisa, alcuni soci, a partire da Emilio Gnutti hanno voglia di vendere e passare all’incasso. Tronchetti ha voglia di comprare, per arrivare al controllo di Telecom: «Comincia a cercare dei possibili soci. Ne individua tre: la famiglia Benetton, il finanziere milanese Francesco Micheli e Mediaset. Questa è la squadra che, nella primavera del 2001 medita di rilevare la Telecom dalle mani della “razza padana”. Quando si arriva al dunque, nel luglio del 2001, c’è un colpo di scena. Micheli e Mediaset dicono che la “razza padana” vuole troppi soldi, più di 4 euro per azione e che a quei prezzi comprare Telecom è un’operazione troppo rischiosa. E abbandonano la partita. Rimangono in campo Tronchetti e i Benetton. L’operazione va in porto verso la fine di luglio, e in settembre Tronchetti Provera si insedia come nuovo presidente di Telecom. E corona un sogno che durava da almeno dieci anni, se non di più» (Giuseppe Turani).
• Colaninno e i suoi soci pretesero per il controllo di Telecom (cioè il 18 per cento che passò da Olivetti a Olimpia) una valutazione di 4,17 euro per azione (sul mercato i titoli quotavano attorno ai 2,1 euro) e un prezzo conseguente di 80 miliardi. Tronchetti inoltre si sarebbe fatto carico di tutti i debiti: in quel momento 48 miliardi. Colaninno e soci avevano speso per la scalata 50 miliardi, rilevandola dalla vecchia compagine (guidata dalla famiglia Agnelli) che ne aveva impiegati 25.
• Tronchetti, per diminuire l’esposizione, passò il periodo 2001-2005 a vendere pezzi di azienda ritenuti non strategici ed era riuscito a far scendere l’indebitamento fino a 26 miliardi. Ma nel 2004 decise di fondere Tim in Telecom, per avvicinare l’imponente flusso di cassa determinato dalla telefonia cellulare alla casa-madre che doveva fronteggiare il debito. Per questo si dovette procedere a un’Opa su Tim e aggravare l’esposizione del sistema di altri 15 miliardi. Nel frattempo, Tronchetti si era finanziato piazzando sul mercato bond per 11 miliardi. A ottobre 2006 uno di questi bond veniva a scadenza e inoltre si sarebbe dovuta ricomprare da Banca Intesa e Unicredit una quota del 4,75% per cento che le due banche avevano preso insieme a Tronchetti al momento dell’acquisizione del 2001, impegnando però Pirelli a riacquistarle sempre al prezzo di 4 euro (nel 2006 Telecom quotava 2,6). Con queste urgenze di cassa e con un debito di 41 miliardi Tronchetti pensò di separare quello che aveva appena unito – cioè Tim e Telecom – e di venderlo probabilmente a un investitore estero. Creando poi una società indipendente per la gestione della rete, Telecom sarebbe stata trasformata in una media-company, cioè una televisione via Internet da vedere sugli schermi dei computer. Per questo Tronchetti iniziò a studiare con Rupert Murdoch una fusione tra Sky Italia e Telecom, oppure almeno una cessione di contenuti dalla library di Murdoch a Telecom Media. Il presidente del Consiglio Romano Prodi, informato dallo stesso Tronchetti dell’operazione, incaricò però il suo consulente Angelo Rovati di preparare un piano per rilevare il 30% per cento della rete telefonica fissa e conferirlo alla Cassa depositi e prestiti, trasformandola così definitivamente in un piccolo Iri. Prodi sostenne la tesi, assai poco credibile, che Rovati aveva fatto tutto di testa sua e a sua insaputa. In ogni caso, informò Tronchetti che non avrebbe ammesso la cessione di Tim a uno straniero (il governo non possiede più azioni Telecom, ma ha una golden share con la quale può bloccare operazioni giudicate in contrasto con l’interesse nazionale). Tronchetti Provera, affermando che il governo voleva «scippargli la rete» (secondo l’espressione usata al momento dai giornali), diede le dimissioni da presidente Telecom e il consiglio d’amministrazione il 15 settembre 2006 nominò al suo posto Guido Rossi, che restò in carica fino al 6 aprile 2007. «In questo quadro dai contorni drammatici – sono di mercoledì 20 settembre i primi arresti di Tavaroli & C. per l’inquietante caso dello spionaggio illecito in Telecom – la nomina di Rossi alla presidenza assume la valenza dell’arrivo di un garante, dotato di credibilità e indipendenza anche nei confronti della magistratura. E in effetti Rossi lavora proprio in questa direzione, smonta le speculazioni sul debito della Telecom troppo alto, si adopera per eliminare dai giornali la parola “intercettazioni”, cerca e trova un dialogo con l’Authority sulla spinosa questione dello scorporo della rete che interessa soprattutto il governo. Tronchetti lo sceglie anche in una logica politica, poiché Rossi rappresenta un ponte verso Massimo D’Alema, da contrapporre all’avanzata prodiana che lo sta sommergendo. Ma Rossi fa di più perché ritiene che il suo ritorno in Telecom, dopo la breve parentesi della privatizzazione, debba spingersi oltre. Cerca di spezzare quella catena strettissima che lega Pirelli, azionista al 18% per cento, a Telecom. Rossi indossa i panni, ovviamente non graditi a Tronchetti, di presidente di tutti gli azionisti, secondo un modello di public company in vigore nei più evoluti mercati anglosassoni (...) I rapporti con Tronchetti cominciano a deteriorarsi. La miccia che innesca l’ordigno si accende intorno al 10 febbraio, quando la Repubblica anticipa l’intenzione della Pirelli di vendere agli spagnoli di Telefónica un pezzo di Olimpia. Rossi la prende male, la interpreta come una forzatura che arriva dall’alto. Un’operazione nell’interesse dei soli soci Pirelli e non di quelli, ben più numerosi, di Telecom. Gli uomini di Tronchetti, al contrario, mettono a punto un documento in cui dalla grande alleanza scaturirebbero enormi vantaggi per entrambe le società. Ma il sospetto che Telefónica voglia appropriarsi del gioiellino brasiliano (Tim Brasil, secondo operatore mobile del paese, in espansione – ndr) è molto forte. L’operazione non varca la soglia del cda, Rossi ha eretto una muraglia e l’8 marzo si arriva al primo scontro frontale. I “pirelliani” Puri Negri, Moratti e Pistorio si astengono dall’approvazione del piano industriale giudicato troppo tiepido in mancanza di una prospettiva industriale con Telefónica. Rossi risponde che gli accordi con Cesar Alierta si possono fare ma senza legarsi le mani, così come ha fatto la Fiat di Marchionne. Passa la linea di Rossi e per la prima volta negli ultimi cinque anni la volontà di Pirelli non trova riscontro nelle deliberazioni del consiglio. La conseguenza, per Tronchetti, è gravissima: il premio di maggioranza costruito negli anni intorno al 18% di Olimpia si sgretola. Non può permetterlo, anche per dovere verso gli azionisti Pirelli che dall’inizio dell’avventura nelle telecomunicazioni hanno già perso 2 miliardi di euro più il costo del capitale impiegato. A questo punto Tronchetti decide di mettere tutto in vendita e porta un nuovo compratore: il vecchio Slim (il magnate messicano che aveva già avanzato una proposta per Tim Brasil – ndr) torna utile con i suoi alleati americani, il colosso At&t si ripresenta dopo dieci anni. Il rischio che Rossi mandi tutto all’aria un’altra volta è reale, anche perché la maggioranza di governo si schiera contro l’operazione. Informando solo Benetton, Tronchetti decide di far fuori Rossi, nottetempo, con un tratto di penna che esclude il professore dalla lista dei consiglieri che dovranno essere eletti dall’assemblea» (Giovanni Pons). Al suo posto alla presidenza sarà nominato Pasquale Pistorio.
• In tempi diversi le offerte di At&t e di America Móvil di Slim, che si proponevano di rilevare in parti uguali il 66% di Olimpia vengono ritirate. Gli americani, in particolare, fanno riferimento implicito alla forte contrarietà espressa dal governo Prodi. È in questa occasione che scende in campo anche l’ambasciatore Usa Ronald Spogli che sul Corriere della Sera denuncia la difficoltà di fare affari in Italia, perché «spesso vengono innalzate barriere nei confronti delle imprese straniere che intendono investire» (vedi Romano Prodi).
• Passa meno di un mese, tornano in scena gli spagnoli di Telefónica, «che si presentò e fu presentata come partner industriale, mentre in realtà quello che serviva di Telefónica non erano né il management né le tecnologie ma i soldi» (Marco Panara). Il 28 aprile 2007 l’operazione va in porto: Pirelli ha raggiunto l’accordo per la cessione della partecipazione in Olimpia (attraverso cui controllava Telecom) a un pool di banche italiane e all’operatore spagnolo Telefónica. Tronchetti Provera spunta il prezzo, 2,82 euro ad azione, richiesto per vendere (un valore più alto dei 2,17 euro dell’ultima quotazione a Piazza Affari ma ben lontano dagli oltre 4 pagati nel 2001), il consiglio d’amministrazione della Pirelli accetta l’offerta da 4,1 miliardi della cordata formata da Generali, Mediobanca, Intesa SanPaolo, Sintonia (gruppo Benetton) e appunto Telefónica per l’acquisizione di Olimpia, che custodisce il 18% di Telecom. Con questa quota, che si aggiunge alle loro partecipazioni di partenza, i nuovi azionisti di controllo blindano in Telco, nuova società-cassaforte, il 23,6% di Telecom (Telefónica con il 42,3% di Telco è il primo azionista singolo, ma con l’8,4% della famiglia Benetton, il 10,6% rispettivamente di Intesa e Mediobanca, il 28,1 delle Generali, la maggioranza della cassaforte di Telecom è in mani italiane). Nelle casse Pirelli entrano 3,3 miliardi di euro, rispetto a un investimento iniziale di circa 7 miliardi. Il ricavato dell’uscita dalla telefonia ha consentito al gruppo di azzerare i debiti e tornare al 100% nel capitale di Tyre, la controllata nel settore pneumatici (quinto operatore mondiale, con nuovi stabilimenti in Romania e Cina). Nel giugno 2008 ha firmato una prima intesa per costituire una joint venture paritetica con Russian Technology per la produzione in Russia di pneumatici per auto e camion. Ha indicato anche l’India come obiettivo dell’espansione internazionale del gruppo. Sulla prima semestrale 2008 ha pesato ancora l’eredità Telecom, un 1,36% di partecipazione che Pirelli ha mantenuto in portafoglio: la società ha svalutato la quota ai valori di mercato del 30 giugno, con una minusvalenza di 155 milioni che ha contribuito a portare i conti in rosso (nonostante l’incremento dei ricavi).
• «Se si guardano i risultati per Pirelli, forse non valeva la pena correre l’avventura Telecom. Ma il bilancio professionale è positivo», commentò a caldo Tronchetti. In effetti, i soci Pirelli «se a inizio 2000 avessero spostato i loro soldi sulla Michelin – evitando i brividi dell’era delle telecomunicazioni – oggi si troverebbero in tasca un guadagno netto del 129% (...) Per lui, però, le cose sono andate decisamente meglio. E non solo dal punto di vista professionale. Da inizio millennio ad oggi, il numero uno del gruppo si è messo in tasca oltre 290 milioni tra stock option e stipendi, pari a una busta paga di 41 milioni all’anno. Più del doppio dei 138 milioni che ha investito di persona per acquistare il controllo della galassia» (Ettore Livini nel maggio 2007).
• Attraverso la Pirelli ha un ruolo fondamentale nell’informazione del Paese. Dal 1997 al 2001 fu presidente del Sole 24 Ore, dal 2001 al 2006 seguì lo sviluppo de La 7 e dell’Agenzia ApCom. Da tempo rappresenta Pirelli nel Sindacato azionisti del Corriere della Sera: «Ho sempre cercato, non essendo né il maggiore né il più influente azionista, di costituire un elemento di raccordo tra i soci, per assicurare quella stabilità e pluralità di azionariato che è garanzia di indipendenza del Corriere della Sera, che considero una istituzione del Paese» (da una lettera pubblicata sulla Stampa del 21 gennaio 2007).
• Nel 2001 istituì la Fondazione Silvio Tronchetti Provera, dedicata alla memoria del padre e intesa a promuovere la ricerca scientifica e tecnologica.
• Già sposato anche con Letizia Rittatore Vonwiller, nel 2001 il terzo matrimonio, con Afef Jnifen. Dalla seconda moglie Cecilia Pirelli (nozze nel 1978), ha avuto i figli Giada, Ilaria e Giovanni: la prima, impegnata nella pubblicità, ha sposato Carlo Noseda, che opera nello stesso settore; Ilaria, laureata in Giurisprudenza, lavora in uno studio legale, ha sposato Anselmo Guerrieri Gonzaga, famiglia di antica tradizione che produce vino in Trentino; Giovanni ha seguito le orme del padre e del nonno alla Bocconi.
• Provvedimenti giudiziari Il 14 luglio 2008 la procura di Milano ha chiuso le indagini sui dossier illeciti costruiti dentro Telecom all’epoca in cui era presidente del gruppo (vedi Giuliano Tavaroli), dopo averlo sentito come teste i giudici milanesi non gli hanno mosso alcun rilievo (non è stato nemmeno indagato), ritenendo vera anche la tesi ribadita in più interrogatori dall’ex capo della sicurezza di Telecom, Tavaroli, secondo la quale né lui né l’amministratore delegato di allora, Carlo Buora, erano a conoscenza di quello che combinava la Security. La Procura ha imputato però la responsabilità oggettiva alle aziende Pirelli e Telecom (indagate per corruzione) perché non avrebbero controllato adeguatamente l’operato di Tavaroli. «L’industriale milanese può aver peccato di ingenuità (ed è certo grave per un imprenditore della sua fama), ma secondo i giudici non è il capo degli spioni. Meglio ingenuo che mascalzone» (Rinaldo Gianola). Il proscioglimento indignò fortemente i suoi nemici. In coda alla vicenda giudiziaria, Tavaroli, in una discussa intervista di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica del 1° agosto, parlò di un dossier che avrebbe coinvolto Piero Fassino come beneficiario di un fondo estero per conto dei Ds e fece il nome di Tronchetti Provera come mandante di quel dossieraggio.
• Condannato in primo grado a un anno e otto mesi il 17 maggio 2013 dal tribunale di Milano, che lo dichiarò colpevole di ricettazione per il disco con il materiale informatico sottratto dal team di Giuliano Tavaroli nel 2005 ai computer dell’agenzia investigativa Kroll. Secondo Tavaroli vi fu un riunione con il capo dell’ufficio legale di Telecom, Giuseppe Chiappetta, e con l’avvocato del gruppo, Francesco Mucciarelli, per concordare la gestione del materiale. Al termine della riunione intervenne anche Tronchetti, e si concordò che Tavaroli avrebbe inviato il dvd in busta anonima alla segretaria del presidente. Insieme alla condanna a venti mesi di carcere, totalmente assorbita dalla condizionale, il giudice Anna Calabi ha inflitto a Tronchetti un risarcimento di novecentomila euro a favore di Telecom, il cui nuovo management si era costituito parte civile contro l’ex presidente (chiedendo una cifra assai più rilevante, sei milioni). Accolti anche i risarcimenti chiesti da Carla Cico e Daniel Dantas, gli avversari di Tronchetti nella guerra brasiliana. È in corso il processo d’appello.
• Il 21 maggio 2014 caddero le accuse di corruzione internazionale e associazione a delinquere, «il giudice preliminare Giuseppe Gennari stabilisce che non c’è prova che Tronchetti abbia condotto la battaglia brasiliana violando le regole, e non si può escludere che questo riconoscimento pesi anche nel processo d’appello per la storia del dvd pieno di dati illegalmente acquisiti dagli hacker di Giuliano Tavaroli» (Luca Fazzo) [Grn 22/5/2014].
• Critica L’11 marzo 1997 un articolo del Financial Times lo presentò come “il nuovo Principe” dell’industria italiana, successore naturale del “vecchio leone” torinese. «Sebbene non abbia il peso economico di un Agnelli o di un Berlusconi» si leggeva «Tronchetti è ineccepibile dal punto di vista etico. Il suo è uno dei pochi gruppi a non essere stato toccato da Tangentopoli. È lui che ha salvato la Pirelli...».
• «In questi anni, nonostante gli errori commessi, al fianco della “piramide” Afef è diventato quasi un’icona nazionalpopolare, ma non riuscendo mai a colmare neanche lontanamente il vallo che lo separa dalla naturale autorevolezza che ammantava l’Avvocato» (Alberto Statera).
• Politica «Non è noto per chi voti, si è definito “un liberale di antica estrazione”. Da ragazzo stava tra i Giovani liberali, non facile negli anni Settanta, come Carlo Scognamiglio poi marito della sua ex moglie Cecilia. Nel 2006 a Milano ha votato Letizia Moratti, ma a Roma? Nel 94 diffidava del partito-azienda Forza Italia; nel 2001 molto meno. Dalla destra al governo ha avuto attenzioni. Berlusconi favorì la conquista di Telecom, e lo stesso anno Pirelli comprò da Berlusconi l’Edilnord e le Pagine Utili. Affari incrociati, si disse» (Enrico Arosio).
• Molto più conflittuali i rapporti con Romano Prodi, che gli si pose più di una volta di traverso: con il piano Rovati e al momento della possibilità di vendita di Telecom agli americani, ma anche in occasione della ventilata alleanza con Murdoch.
• Tifo Interista, molto amico di Massimo Moratti (la Pirelli è da anni sponsor dei nerazzurri nonostante Leopoldo fosse milanista). «La tifosa dell’Inter era mia madre. Mio padre non era un appassionato, anzi considerava bizzarro che questi signori corressero in mezzo al campo in mutande...» (da un’intervista di Umberto Zapelloni).
• Vizi Ama la vela e lo sci. Veste Caraceni, porta scarpe su misura, se non per il tempo libero quando usa Tod’s e Prada, indossa camicie Loro Piana, orologio Audemars Piguet Royal Oak, cravatte Marinella.