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 2012  giugno 03 Domenica calendario

Quando l’elicottero si è posato nel recinto della prigione Torah lui si è messo a piangere. Non voleva scendere

Quando l’elicottero si è posato nel recinto della prigione Torah lui si è messo a piangere. Non voleva scendere. Si è impuntato. Ha sbraitato. «Portatemi dove sono stato in questi giorni», cioè in clinica. In prigione no. Per convincere Hosni Mubarak a lasciare l’elicottero con le buone ci sarebbero volute più di due ore. L’hanno raccontato agenti della sicurezza alle agenzie di stampa: durante il volo dall’aula al penitenziario (dove sono detenuti anche i suoi due figli) l’ex presidente avrebbe avuto una crisi, forse un attacco di cuore secondo alcune fonti. Alla fine si è lasciato condurre nell’infermeria della prigione. Due Mubarak: l’assente e il piangente. Prima, alla sentenza, un volto di marmo appoggiato al cuscino, l’espressione impassibile dietro gli occhiali scuri. Dopo, lontano dalle telecamere, il dramma psicologico, verità e teatro. Le lacrime incredule di un vecchio capo che non accetta la caduta, la sceneggiata di un uomo che nei primi anni al potere veniva chiamato la vache qui rit (dal nome di un formaggio francese) per il suo modo di interpretare le numerose apparizioni in tv. «La vacca che ride» ha cambiato copione. Piange, si ribella ma non davanti al suo (ex) pubblico. E senza la spavalderia di Saddam Hussein che nell’aula bunker di Bagdad una domenica di novembre del 2006, quando il giudice lesse la sua condanna a morte, tuonò nel suo perfetto completo scuro con il fazzoletto al taschino: «Allah è grande, lunga vita all’Iraq, abbasso i traditori». Il giudice ordinò alle guardie di farlo alzare, lui gridò: Non legatemi, non legatemi». Uscendo aveva un vago sorriso da istrione, come chi ha recitato bene la parte. Tra le reazioni ci furono anche le parole preoccupate di Mubarak: «L’impiccagione di Saddam — disse — farebbe esplodere una violenza a cascata». Saddam morì poco dopo, a 69 anni, con il cappotto, recitando versi del Corano: un uomo gli mise al collo un enorme cappio mentre intorno molti scattavano immagini con i telefonini. Nella sua Tikrit per un giorno ci fu qualche rivolo di protesta contro l’esecuzione, ma nessuna cascata. In Iraq la violenza diminuì, per altri motivi. Non era Saddam, vivo o morto, il nodo della guerra. Saddam era il passato, gli iracheni lo sapevano. E anche se ancora teatralmente si proclamava il presidente dell’Iraq, lui stesso aveva finito per accettarlo durante quell’anno di processo con 40 udienze, fuori e dentro la cella di Camp Cropper dove mangiava i doritos dei secondini americani con cui aveva fatto amicizia. Mubarak non ha capito o finge di non capire che anche lui rappresenta il passato. Un uomo di 84 anni teme così tanto la prigione? Un anno di arresti domiciliari e ospedalieri non hanno scalfito (anzi hanno puntellato) il suo offeso stupore. La «cultura della sconfitta» non appartiene ai leader autoritari della sua schiatta, quelli che si credono in credito in quanto «padri della patria». I dittatori come Saddam, saliti (e rimasti) al potere con l’esercizio quotidiano e diretto della ferocia, paradossalmente accettano meglio l’idea di poter perdere. Lo stesso vale per i «sanguinari visionari», i pianificatori di morte di oggi e di ieri. Niente lacrime. Dal cambogiano Pol Pot (morto nel suo letto nella foresta prima di essere consegnato alla giustizia) al capo della propaganda nazista Joseph Goebbels (morto suicida dopo il suo Führer) che già diceva nel ’43: «Passeremo alla storia come i più grandi statisti di tutti i tempi o i più grandi criminali». C’è chi non ha mai messo in conto di passare alla storia come despota. Decaduto, anzi peggio: condannato. Chi ha reagito con furioso sdegno, come Milosevic al Tribunale dell’Aja. O con disprezzo, come in Romania i coniugi Ceausescu davanti al processo farsa che in differita tv li condannò al plotone di esecuzione. Tra i Raìs spodestati dalle primavere arabe ha avuto una fine cruenta (ma senza sentenza) Muammar Gheddafi, che in un eventuale processo avrebbe fatto uno show alla stregua di Saddam. C’è chi è stato condannato in contumacia, come il tunisino Ben Ali fuggito in Arabia Saudita: sull’aereo che lo portava in esilio tenne sempre una pistola in pugno, terrorizzato all’idea di essere ucciso. Lo yemenita Saleh ha lasciato il potere in cambio dell’amnistia. Per ora, nella lista dei detenuti, c’è solo il faraone Mubarak, l’ex pilota d’aviazione (per decenni aiutato e riverito dall’Occidente) che si credeva il padre di tutti gli egiziani. E forse si crede ancora. Le sue lacrime sull’elicottero che lo portava in prigione sanno di incredulità. Le due ore impiegate dagli agenti per convincerlo sanno di ultima deferenza. E dicono forse qualcosa sulla difficoltà a considerarlo l’unico, vero criminale di questa storia egiziana. Michele Farina