3 giugno 2012
Tags : Denis Santachiara
Biografia di Denis Santachiara
• Campagnola (Reggio Emilia) 4 maggio 1950. Designer. Autodidatta, cominciò con le macchine. «Perché automobile è un po’ tutto: è tecnologia, è salotto, velocità, ergonomia».
• «È uno di quei creativi cui piace il design dell’invenzione, della sperimentazione. Le sue opere sono esposte al MoMA di New York, al Musée des Arts Décoratifs del Louvre di Parigi, al National Museum of Modern Art di Tokyo, al Philadelphia Museum e al Vitra Museum di Berlino. Mi interessa la capacità comunicativa delle cose. Devo partire da una mostra che feci nell’84 alla Triennale di Milano e al Centre Pompidou a Parigi, si intitolava Neomerce, il design dell’invenzione e dell’estasi artificiale. Una mostra-manifesto che aveva l’obiettivo di superare il tradizionale concetto italiano di “buon design”: volevamo staccare l’estetica dalla funzione, far parlare non solo la forma ma mettere in luce la capacità performativa degli oggetti dal punto di vista linguistico. Il mio motto era: non bisogna disegnare solo il personaggio ma anche le sue gag. Mi interessava il prodotto più che il suo disegno, quello che un oggetto sa fare e comunicare, il suo “modo d’essere” piuttosto che la sua plasticità. Per me un oggetto intelligente e rispettoso dell’ambiente (in senso spaziale) è quello che sa trasformarsi con l’uso, sa essere organico al contesto e alla fine sa “essere”. Mi piace la ricerca delle possibilità, la tecnologia ne offre molte. Ho cominciato nella carrozzeria del gruppo De Tommaso. Nella mia zona, quando ero ragazzo, quello si faceva e poi l’auto era nell’immaginario di tutti noi, era il mito della velocità ma anche del salotto, era meccanica ed estetica. Ho imparato molte cose tecniche, mi è rimasto soprattutto l’incanto di poter realizzare prodotti sensati e insieme giocosi, prestanti ma anche con una dose di immaginifico, materiali e virtuali. Il mio Pisolo, puf che diventa letto, l’appendiabito che si fa pulisciscarpa, o la poltrona creata per Dema: si gonfia, si sgonfia, si allunga e massaggia. Quando uno la compra, se la porta via dentro una valigetta, e spende poco. Anche oggetti “fuori di testa” come dico io e come ho imparato da Alessandro Mendini. Tecnologia ludica, comunicazione di emozioni. Ho fatto una serie di cannocchiali usando un metodo assolutamente ortodosso, il sistema di Galileo, poi però ci ho infilato lo scherzo: le stelle si vedevano a colori. Un oggetto speciale, come ci piaceva chiamarlo con Mendini, e infatti nella sua rivista Modo cominciai a pubblicare i miei lavori. Dietro c’era una poetica: sperimentare attraverso la tecnologia nuovi usi e linguaggi delle cose. Tenendo nascosto lo sforzo tecnico per far emergere la sorpresa e l’effetto, come appunto nella poltrona di cui dicevo: l’imbottitura sembra normale, la seduta come le altre, e invece dietro c’è un meccanismo di aria compressa mutuata dall’ingegneria aeronautica. Sul sedile un sistema di placche vibranti per i massaggi: si anima e anima. Good vibrations si chiama. Mi piace questa organicità delle cose che si muovono come fossero vive. Parlano con chi le usa, vanno incontro. Merce di intrattenimento, simpatica, interattiva. Insomma, per me gli oggetti devono raccontare qualcosa, e saper fare qualcosa. Esprimere una performance comunicativa. Io utilizzo le cosiddette subforniture, materiali finiti e pronti. Mi piacciono le fibre ottiche che uso già dagli anni Ottanta, la luminescenza dei tessuti, la sensitività di certe texture, i colori che sprigionano. I temi ecologici stanno diventando sempre più centrali per molte aziende. Dal mio punto di vista non entrano nella creazione come linguaggio poetico. Come discorso etico e politico sì, ma è un’altra questione. Credo che, piuttosto, la sfida più concreta sarà quella di trovare soluzioni per abitare in spazi sempre più ristretti. Soluzioni concrete e insieme sognanti: dunque oggetti trasformabili ma che dentro contengano un racconto, una finzione, un’emozione» (Alessandra Retico).