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 2012  giugno 03 Domenica calendario

LE 5 PAGINE MEMORABILI DELLA STORIA DELLA LETTERATURA: BUGIE - «C

hi dice le bugie non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù...»: è l’inizio di una filastrocca che ci recitavano da bambini. Il postmoderno (almeno in Italia) non c’era ancora: correva l’obbligo, in ogni ambito e funzione, di dire la verità. Solo più tardi si sarebbe passati a considerarla (o a riconsiderarla) una tra le possibili illimitate versioni del vero, cioè del cosiddetto «reale»: così, alla fine degli anni Novanta, mentire è postmoderno, si porta. Non per caso è l’epoca della letteratura anteposta alla storia e, di conseguenza, delle opinioni trionfanti sui fatti.
E la letteratura, si sa, è il regno dei bugiardi: narrare è rappresentare, dunque falsificare, già in Platone. E Luciano di Samosata apriva Una storia vera con una dichiarazione paradossale di autenticità: «dirò questa sola verità: che mentirò». Molto più in là, negli anni Sessanta del Novecento, Giorgio Manganelli avrebbe rivendicato la natura tutta «finzionale» del raccontare (ovvero falsificare), a partire dal saggio-manifesto La letteratura come menzogna. La bugia è da considerarsi la parente povera della menzogna: a differenza di quest’ultima è basica, elementare. Dire una cosa per un’altra. Come accade, esattamente «laggiù», ai diavoli di Dante, che per indurlo a sbagliare strada, danno all’agens (al personaggio che visita l’Inferno — figurarsi!) un’informazione falsa. Dopo il danno, puntuale arriva anche la beffa, da parte del dannato Catalano: «Io udi’ già dire a Bologna/ del diavol vizi assai tra quali udi’/ch’elli è bugiardo e padre di menzogna».
Anche entro un orizzonte come quello medievale, dominato dall’ideologia (visione del mondo) cattolica, la valenza non solo giocosa ma utile, positiva, della bugia — se detta per un nobile scopo — non solo si fa strada, ma diventa senso comune. Di bugie, non a caso, è pieno il Decameron di Boccaccio, opera di un’industriosa società mercantile e cittadina, che comincia a fiutare l’inesistenza del «laggiù», e a basare l’esperienza su valori mondani, a partire dall’eros. A mentire sono anche, anzi, soprattutto i religiosi: sin dalla falsa confessione di Ser Ciappelletto arrivando a Frate Cipolla, che smaschera l’infondatezza della devozione credulona dall’interno, inanellando, nella nota predica, una serie di patenti bugie.
Giovanni Boccaccio,
Decameron, VI, 10
«Io capitai, passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in Terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andavano per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi dove la loro utilità vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio». A parte la trasparente indicazione toponomastica preliminare, frate Cipolla mette in scena tutto il campionario della menzogna, dall’equivoco alla bugia, dall’adunaton (l’impossibile) al paradosso.
Si tratta di un ambito prettamente comico, e i mentitori, in letteratura, di norma lo sono: tralasciando travestimenti e camuffamenti, che complicano gli intrecci teatrali dalla commedia antica alla commedia dell’arte a Corneille a Goldoni (entrambi autori di opere intitolate il Bugiardo), e che ha nell’epica la propria remota origine (a partire dal celeberrimo Odisseo omerico), si arriva all’archetipo del bugiardo letterario moderno, che è naturalmente Pinocchio, il quale, di bugie vere e proprie non ne dice moltissime, ma resta il campione dell’attitudine fantasiosa e compulsiva, come dimostra la celebre sequenza delle monete d’oro e degli assassini inseguitori, nel capitolo XVII.
Carlo Collodi, Pinocchio
«"E ora le quattro monete dove le hai messe?", gli domandò la Fata. "Le ho perdute!", rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece le aveva in tasca. Appena detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più. "E dove le hai perdute?". "Nel bosco qui vicino". A questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere. "Se le hai perdute nel bosco vicino", disse la Fata, "le cercheremo e le ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre". "Ah! ora che mi rammento bene", replicò il burattino imbrogliandosi, "le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene, le ho inghiottite"».
Italo Svevo, La coscienza di Zeno
Altro bugiardo statutario è Zeno Cosini, che nella cornice narrativa psicoanalitica (il memoriale steso a scopo terapeutico) non può che mentire, o meglio fornire la propria versione dei fatti, e però, come in ogni analisi che si rispetti, la bugia (cioè la versione addomesticata della «realtà») è sintomatica, dunque significativa quanto ciò che occulta o traveste, come rivendicato, del resto, già dal dottor S., nella celebre prefazione: «Le pubblico (le memorie di Zeno, s’intende ndr) per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!».
Ne consegue, quanto al rapporto col lettore, un’ibridazione o sovrapposizione fra confessione e connivenza (così per il Lavagetto di Confessarsi è mentire, in La cicatrice di Montaigne), cattiva coscienza e seduzione, che finisce con l’appiattire la dimensione biografica dell’autore sulle vicende del suo personaggio (menzogne incluse), facendo di entrambi dei bugiardi proverbiali.
Marcel Proust, La prigioniera
Analogamente si muove l’Albertine proustiana (Agostinelli, nella realtà biografica), per la quale la verità, svincolata dall’obbligo di offrire una versione degli accadimenti valida una volta per tutte, diventa non solo opaca e inattingibile, ma, alla fin fine, inessenziale. Ne La prigioniera, la bugia fa tutt’uno con la gelosia, ne è un puntello, e poi un alimento: «Forse domani andrò dai Verdurin», dice la ragazza al suo carceriere (prigione dorata, di agi e di amore, ma sempre prigione), «non ne sono affatto sicura, ne ho pochissima voglia». «Puerile anagramma», svela il narratore, «di questa confessione: "Domani andrò dai Verdurin, è assolutamente certo perché la cosa, per me, è della massima importanza"».
Ecco che la bugia assurge a strumento fallace se non fallimentare di controllo («a occuparmi la mente non era ciò che Albertine poteva aver detto d’intelligente, ma quella certa parola che destava in me un dubbio sulle sue azioni»), preludendo a una vera e propria destituzione di fondamento dell’ontologia del vero: «Ci scambiammo, così, parole menzognere — il momento riflessivo è quello che segue la prefigurazione della morte di Albertine, allo scopo di scongiurarla —. Ma una verità più profonda di quella che diremmo se fossimo sinceri può esprimersi e annunciarsi, qualche volta, per una via diversa dalla sincerità».
Luigi Malerba, Il serpente
È il carattere talvolta paradossale della bugia a sfociare nell’indecidibilità che prelude alla temperie postmoderna, entro cui si mente per sperimentare i limiti oltre i quali sia possibile forzare la percezione soggettiva (o, se vogliamo metterla in questo modo, per condannarsi). Così l’io narrante del Serpente di Luigi Malerba, che dopo una partecipata storia d’amore con il personaggio fantasmatico di Miriam, uccide la donna e, addirittura, la mangia: «Sei un cannibale, mi dicevo. Benissimo, e con questo? Ci sono anche i cannibali contrari al cannibalismo. Sta’ tranquillo, mi dicevo, c’è posto anche per te in questo mondo». Senza offrire alcuna prova, nel frattempo, non solo di averla mangiata, quella donna, ma nemmeno che ella sia stata effettivamente assassinata, e forse, alla fin fine, esistita, se dai verbali della polizia non ne risulta traccia. Tra ciò che accade e ciò che s’immagina, non si sa proprio, dunque, come raccapezzarsi: «Descrizione della vittima e scriveva statura media capelli castani occhi azzurri carnagione scura, oppure occhi castani carnagione chiara. Aveva smesso di battere sulla vecchia Olivetti, mi guardava di nuovo. O l’uno o l’altro, diceva. Azzurro non è castano. Azzurro non è nemmeno azzurro, allora. Castano non è castano, non è niente».
Gilda Policastro