Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  giugno 03 Domenica calendario

L’archivio della memoria. Spoon River delle donne Uccise dai clan, dai familiari per essersi ribellate alle mafie Un libro dell’associazione Dasud racconta la vita terribile delle «Sdisonorate»: ammazzate da bambine, “suicidate” in età adulta

L’archivio della memoria. Spoon River delle donne Uccise dai clan, dai familiari per essersi ribellate alle mafie Un libro dell’associazione Dasud racconta la vita terribile delle «Sdisonorate»: ammazzate da bambine, “suicidate” in età adulta. Una storia iniziata alla fine dell’800 e mai finita EMANUELA, LA PRIMA, A PALERMO, 1896, PIÙ DI UN SECOLO FA. POI VINCENZINA, MARINA, LUCIANA, FORTUNATA, ANGELA CHE AVEVA SOLO UN ANNO, MARIA CONCETTA CACCIOLA, TITA BOCCAFUSCA E LEA GAROFOLO, donne-boss e donne di boss che dicono basta, si ribellano, denunciano e finiscono sciolte nell’acido. O suicidate. C’è una Spoon River che parla solo al femminile. È in un non-luogo mai nato, una collina gentile dove 150 donne si chiamano per nome e ricordano, almeno tra di loro, chi sono state: uccise, sparate, suicidate per motivi di mafia da uomini dei clan. Parole e storie da ascoltare sfogliando un documento importante e prezioso che per la prima volta le raccoglie insieme (Sdisonorate) grazie al lavoro delle volontarie della onlus Associazione daSud. Emanuela aveva solo 17 anni, Palermo, 1896, clan e famiglie sono già una realtà con cui fare i conti: «Mia mamma era la bettoliera del quartiere e aveva denunciato dei mafiosi perché fabbricavano banconote false. Il 27 dicembre mi sparano sotto casa. Mia madre Emanuela ha continuato a collaborare con la giustizia...». Angela Talluto aveva un anno quando gli uomini di Salvatore Giuliano le sparano: «Era il 7 settembre 1945, io non c’entravo nulla, i banditi di Salvatore Giuliano volevano uccidere il militante socialista Giovanni Spiga. Lo aspettano sotto la porta di casa a Montelepre. Lui viene ferito a una gamba Io invece muoio subito». A proposito di mafie e clan e di loro presunti codici d’onore che, secondo recente vulgata, non uccidono per ritorsione bambini e innocenti: Emanuela, appunto, poi Angela, fino a oggi con il piccolo Di Matteo, figlio di un pentito, sciolto nell’acido da Brusca. In mezzo tanti altri, troppi. A Portella della Ginestra, il primo maggio 1947, tra le vittime ci sono Margherita Clesceri, mamma di sei figli e incinta del settimo, Vincenza Spina, Eleonora Moschetto e Vincenzina La Fata che ha solo 8 anni. È una collina affollata questa Spoon River di donne vittime della mafie. Si cammina in fretta inseguendo voci e memorie di poveri e amabili resti. Si sfogliano a fatica le pagine di un elenco che non è statistica ma dolore e ricordo, che vuol dire riportare al cuore. Rossella Casini è molti posti più in là, 22 febbraio 1981. Fiorentina, 21 anni, bionda, occhi azzurri e di antico casato, scompare in provincia di Palmi, in Calabria, vittima di una faida a cui lei con il suo innamorato calabrese avevano cercato di ribellarsi. «Vivevo a Firenze nel quartiere Santa Croce, avevo 21 anni e studiavo psicologia. Nel 1977 conosco Francesco Frisina, calabrese di Palmi, studente di Economia e Commercio. Un grande amore, ben visto anche dalle nostre famiglie. Ma nel 1978 a Palmi scoppia la faida tra i Gallico e i Carrello-Condello. Il 4 luglio 1979 ammazzano il padre di Francesco, a dicembre feriscono alla testa Francesco che però sopravvive. I miei genitori vorrebbero che chiudessi la storia. Ma io scendo a Palmi e convinco Francesco a parlare». Il giovane racconta, scattano arresti. Ma qualcosa, qualcuno, ferma Francesco. Per i clan è il massimo dell’affronto, e del pericolo: «Una straniera, come me, che fa leva sull’amore per spingere il suo uomo a tradire. Un precedente pericolosissimo che non può passare». Rossella è a Palmi nel febbraio 1981, mancano pochi giorni all’avvio del processo. Anche lei, per disperazione, prova a ritrattare ma non le credono. La mattina del 22 febbraio telefona al padre per annunciare il suo rientro. Ma scompare. Tredici anni dopo un pentito Vincenzo Lo Vecchio racconterà che «la straniera» (Rossella, ndr) è stata uccisa e fatta a pezzi dai Frisina». Il suo corpo è da qualche parte nel tratto di mare della tonnara di Palmi. Poco più in là si alza la voce di Palmina Martinelli, uccisa nel 1981. «Avevo 14 anni, sono cresciuta in una quartiere povero di Fasano, provincia di Brindisi, sesta di undici figli. Il fratellastro di Giovanni, ragazzo di cui ero innamorata, voleva farmi prostituire. Mi ribello, non ci sto. Mi danno fuoco. Nei 22 giorni di agonia riesco a raccontare tutto ai magistrati». Ma gli accusati furono tutti assolti per insufficienza di prove. Mirella Sblocchi, Grazie Scimè, Antonella Oronza Maggio, Anna Forcignano, tante voci, altrettante storie. Agata Azzolina s’impicca il 22 marzo 1997: «Perdonami» lascia scritto alla figlia Chiara. Cinque mesi prima il racket le aveva ucciso il marito e il figlio che, titolari di una gioielleria, si erano rifiutati di consegnare «a credito» due anelli ai fratelli Infuso. Per cinque mesi Agata sarà inseguita a casa e in negozio. Intimidazioni continue, anche fisiche. Ma nessuno, neppure polizia e carabinieri a cui tutto viene puntualmente denunciato, riescono a fare qualcosa. In questa Spoon River colpisce l’assenza, spesso, di colpevoli. E l’incapacità di declinare la parola suicidio in costrizione. Per disperazione. Per solitudine.