Fulvio Coltorti, Corriere della Sera 3/6/2012, 3 giugno 2012
Il 16 gennaio 2001 Mediobanca e Unioncamere presentarono a Vicenza, ospiti di Danilo Longhi, indimenticato presidente di quella Camera e della stessa Unioncamere, la prima edizione dell’indagine sulle medie imprese
Il 16 gennaio 2001 Mediobanca e Unioncamere presentarono a Vicenza, ospiti di Danilo Longhi, indimenticato presidente di quella Camera e della stessa Unioncamere, la prima edizione dell’indagine sulle medie imprese. Oggetto di studio furono in quella première le sole società del Triveneto e dell’Emilia Romagna, dato che in origine avevamo immaginato la ricerca per il solo Nord-Est-Centro di Giorgio Fuà. Erano tempi nei quali pensavamo di trovare imprese deboli, bisognose di aiuti finanziari per riuscire a crescere: ipotesi di lavoro che ci siamo presto scrollati di dosso, noi fortunati tra i molti che invece perdono ancora tempo a lamentarsi del nanismo industriale italiano. In quel periodo, girando per il Veneto, si incontravano cartelli con su scritto «basta con le fabbriche!». Un sistema immaginato debole ci apparve presto assai robusto e adatto a consulenze evolute. Il mese scorso è stato presentato il nuovo focus sul Nord Est, da cui emergono alcune conferme e molte novità. Il territorio è sempre cosparso di imprenditorialità manifatturiera: 107 mila imprese nel 2009 (una ogni centinaio di abitanti), 1.238 delle quali di media dimensione. Nel primo censimento (1998) se ne trovarono 1.010 la cui dimensione media era di 160 dipendenti con 35 milioni di euro di fatturato. Ora la dimensione media è scesa a 135 unità e il fatturato è salito a oltre 39 milioni. I beni per la persona e la casa costituivano il 28% del valore aggiunto complessivo e la meccanica-elettronica il 36,2%; nel 2009 i primi sono scesi al 23% e la seconda è salita al 39%. Dunque, più tecnologia e ciò è confermato dal progresso ancor maggiore delle produzioni chimiche e farmaceutiche salite dal 7,5% del totale al 10,3% con un incremento che ha comportato praticamente il raddoppio del valore assoluto. Queste medie imprese dimostrano ancora una volta che la competitività non si aumenta perseguendo tout court una dimensione maggiore. L’indice del fatturato all’esportazione, fatto 100 il 2000, tocca un massimo di 165 nel 2008, attestandosi a quota 147 nelle proiezioni al 2010. E’ una performance migliore di quella dei maggiori gruppi italiani i quali nell’ultimo anno si fermano a 132. D’altro canto, è la flessibilità l’arma migliore per superare le crisi. Nel 2009, l’anno peggiore, vi è stato un saldo di ben 217 medie imprese tornate piccole. Ciò è accaduto in un contesto nel quale tutti o quasi inneggiavano all’esigenza di aumentare le taglie per poter competere a livello internazionale: le istituzioni e gli stessi imprenditori le cui risposte ai questionari (evidentemente mal posti o spediti all’indirizzo sbagliato) parevano a senso unico. Credo che i fatti, prima ancora del buon senso, abbiano appurato che la penetrazione all’estero dipende dal tipo di produzione che si offre: non è vero che prima viene la dimensione e poi la conquista del mercato. Grazie al progresso delle comunicazioni e dei trasporti oggi non è così difficile internazionalizzare un’azienda. Vale invece il contrario: prima l’impresa studia il mercato e comincia a vendervi i suoi prodotti; poi, se e quando viene premiata dai clienti, costituisce presenze stabili che comportano implicitamente un aumento di struttura. Conta dunque, come sempre, il prodotto che si inventa e il bisogno umano che si soddisfa. Il punto fondamentale resta quello di non spogliare di competenze il territorio che genera il flusso di idee nuove per vincere sui mercati esteri. Ricostruire le filiere, ha scritto Enzo Rullani lo scorso febbraio, e creare imprese «multi-personali» nelle quali l’imprenditore non sia più solo. Alleanze, reti e collaborazioni quale nuova politica sociale per superare una crisi non facile.