3 giugno 2012
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Biografia di Roberto Savi
• Forlì (Cesena e Forlì) 19 maggio 1954. Poliziotto. Serial killer. Detto “Il corto”, fu a capo della cosiddetta “Banda della Uno bianca” (dall’automobile usata per le loro imprese) formata coi fratelli Fabio (detto “Il lungo”) e Alberto (“Il buono”): in sette anni, 24 morti ammazzati, 103 feriti, 92 rapine, un bottino di 2 miliardi e 170 milioni.
• Fecero saltare in aria un palazzo a Bologna, ferendo 40 persone, per portar via 20 milioni; uccisero la proprietaria e il commesso di un’armeria per prendere due calibro 9; ammazzarono due senegalesi a San Mauro Mare e altre due persone in un campo nomadi col solo scopo «di depistare le indagini, far scorrere l’adrenalina dell’odio razziale, provare due fucili appena comprati» (Pino Corrias); uccisero un benzinaio per rubare un milione. Roberto freddò personalmente due ragazzini per un diverbio stradale, poi tornò indietro e uccise un Paride Pedini che era rimasto a guardare la Uno bianca abbandonata e spalancata. Corrias: «A volte capaci di aprire il fuoco solo sospettando un’intercettazione, come al Pilastro, quartiere di Bologna, notte del 4 gennaio 1991, tre carabinieri fucilati, Otello Stefanini, Mauro Mitilini, Andrea Moneta, tutti e tre ventenni, spazzati via da un volume di fuoco impressionante, proiettili Remington 222 ad alta velocità. Con Roberto Savi, che al processo dirà senza emozione: “Il motivo? Temevamo un controllo. Sì, signore, avevo il fucile mitragliatore al fianco. Sì, signore, siamo scesi. No, negativo signore, non abbiamo più sparato, erano tutti morti”».
• Si riforniva di armi, dal 1977, all’armeria di Lodovico Molari. «Dopo un po’ si fanno vivi anche papà Savi e gli altri suoi figli, Fabio e Alberto. Arrivano a chiedere “armi cattive”, acquistano una mitraglietta Beretta modello R70 calibro 222. Poi una Beretta calibro 12» (Paolo Di Stefano) [Cds 19/8/2012].
• Freddissimo. Al processo, alla domanda se ci fossero complici o burattinai dietro la loro attività, rispose: «Dietro la Uno bianca c’è solo la targa».
• Alla questura di Bologna lo chiamavano “Il monaco”. «Una piccola carriera tutta fatta in silenzio, la sua, 18 anni di servizio in polizia. Comincia nel 1976 come semplice agente. Quando lo arrestano, nel novembre 1994, è assistente capo in servizio nella sala operativa, quella che riceve le segnalazioni d’allarme, che smista le auto della polizia: un punto caldo, un osservatorio privilegiato da cui è possibile controllare tutta la città. Poliziotto efficiente, tra il novembre del 1991 e il giugno del 1992, in quanto capo pattuglia, lo chiamano a tenere un corso per allievi delle Questure d’Italia. Nel suo stato di servizio solo due note negative: un colpo di pistola in pancia a un “topo d’auto” e quel tossicodipendente a cui aveva deciso di tagliare i capelli, così, per sfregio» (Sandro Provvisionato).
• Luciano Baglioni e Pietro Costanza, i due poliziotti che, col sostituto procuratore Daniele Paci, arrestarono i tre Savi, identificarono prima Fabio, poi trovarono la foto di Roberto. In questura subito un collega disse: «Ma no. Questo lo conosco, è Roberto Savi, un collega, sta su, alla sala del 113. Te lo chiamo?». «Gelo. Baglioni è il più svelto, chiude il fascicolo, ringrazia, dice: “Ci siamo sbagliati”. Escono a respirare. Raccontano: “Fu un momento terribile, a quel punto non sapevamo più di chi fidarci”» (Corrias). Si scoprì che alle date dei colpi della banda corrispondevano sempre assenze di Roberto in questura, o per ferie o per malattia. Studiarono le banche assaltate, identificarono i possibili obiettivi, videro che Roberto Savi stava facendo un sopralluogo a Marina di Ravenna. Armati solo di indizi, decisero di fermarlo. Lui disse solo: «Potevo farvi saltare in aria».
• Rinchiuso a Forte Boccea, ha tentato un’evasione e un suicidio. Nel 2006, saputo che il capo dello Stato aveva concesso la grazia a Ovidio Bompressi, la chiese anche per sé (negata).
• In carcere leggeva libri di Wilbur Smith [Alessandra Dal Monte, Cds 1/2/2013].
• Il padre, Giuliano, famoso per l’amore delle armi e l’odio per zingari, negri ed ebrei, si suicidò il 29 marzo 1998 ingoiando sette scatole di Tavor dentro una Uno bianca parcheggiata a villa Verrucchio, 13 chilometri da Rimini.