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 2012  giugno 03 Domenica calendario

Biografia di Piero Tosi

• Firenze 10 aprile 1927. Costumista. Cinque nomination all’Oscar: Il gattopardo (1964, regia di Luchino Visconti, premiato col Nastro d’argento), Morte a Venezia (Visconti 1972, Nastro), Ludwig (Visconti 1974), Il vizietto (Edouard Molinaro 1978), La traviata (Zeffirelli 1983, Nastro). Due David di Donatello: La storia vera della signora delle Camelie (Bolognini 1981), Storia di una capinera (Zeffirelli 1993, anche Nastro). Altri Nastri d’argento: Policarpo ufficiale di scrittura (Soldati 1960), La viaccia (Bolognini 1962), Senilità (Bolognini 1963), Malizia (Samperi 1974). Nel 2007 riconoscimento speciale alla carriera nell’ambito del premio Cinecittà Holding 2007 “Un compleanno per il cinema”, nato per festeggiare i 70 anni di Cinecittà. Nell’estate 2013 ha curato, convinto da Carla Fendi, i costumi del Matrimonio segreto di Cimarosa (regia di Quirino Conti) al festival di Spoleto. Nel 2014 premiato con l’Oscar alla carriera, il primo assegnato ad un costumista, non va ritirarlo. «Sarei un disgraziato se dicessi che non mi fa piacere. Ma non sarei andato neanche quarant’anni fa, non amo viaggiare, ho fatto una sola vacanza, negli Anni 60, a parte gli spostamenti per lavoro. Ho il terrore dell’aereo, e detesto muovermi dal mio covo» (a Valerio Cappelli).
• «Il suo “covo” sono due stanze vicino al Pantheon in cui vive in modo frugale: “Non ho mai voluto né una casa né oggetti, è arredata da mobili di scarto di amici e parenti. Ho lo stretto necessario. Nel frigo, che è sempre vuoto, tengo i colori. Per il resto, libri ovunque» (Valerio Cappelli).
• «L’ultimo film nel ’93, La Traviata, e poi una consulenza a Gianni Amelio per Le chiavi di casa. “Intorno mi sono spariti tutti, i miei registi, i miei amici, De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni. Non ci sono più Bolognini e Tirelli, con loro ho diviso la casa quando sono venuto a Roma. È scomparso un mondo che era il mio, gli anni Cinquanta, vitali, rampanti, effervescenti. Ognuno ha il suo tempo, è finito il tempo del twist, l’ultimo ballo che ho ballato. E il cinema come lo facevo io oggi è démodé”» (Maria Pia Fusco).
• «I segni del tempo ci sono, cammina a fatica, accudito da un paio di giovani che si alternano, occhiali scuri proteggono gli occhi indeboliti, ha bisogno di pause per riprendere fiato, ma i lineamenti del volto incorniciato d’argento restano nobili, belli, la memoria è lucida, la mente brillante. E se ha bisogno di energia la recupera miracolosamente, lo sanno bene gli allievi del Centro Sperimentale dove insegna» (Maria Pia Fusco).
• La noia la sconfigge anche continuando a frequentare la gloriosa Sartoria Tirelli. È lì che i suoi disegni sono diventati abiti, costumi, ornamenti. Aspirante pittore, allievo di Ottone Rosai, cerca le radici della passione per lo spettacolo ripensando a quand’era bambino: “Il cinema era un lusso proibito. Durante la guerra fummo sfollati in campagna, prendevo il tram per andare a scuola a Firenze. Nel tratto a piedi che facevo al ritorno da scuola un giorno vidi per terra una striscetta lucida. La raccolsi, era un frammento di pellicola e guardandola attraverso la luce ci vidi ombre strane, misteriose, qualcosa di magico. Solo dopo ho ricostruito: qualche mese prima avevano girato in quella zona un film con Miriam di San Servolo. Quel frammento mi ossessionò a lungo”» (Maria Pia Fusco).

• «Da ragazzo era talmente magro che Anna Magnani, sul set di Bellissima, lo chiamava “San Luigi, il segaiolo”. Che avrebbe fatto il costumista scenografo l’ha sempre saputo, tant’è che abbandonò Firenze per muovere alla conquista di Cinecittà. Non fece né anticamera, né gavetta. Ad attenderlo c’era Luchino Visconti. Il maestro intuì subito che quel giovanotto timido e schivo avrebbe potuto dare forma e colore alle sue visioni. Tosi sapeva muoversi con strabiliante sensibilità in ambiti ed ambienti diversi, in epoche ed epopee differenti. Che fosse l’Italia con le pezze al sedere di Bellissima, la Berlino nazista della Caduta degli dei, o l’agonizzante Palermo del Gattopardo. “Luchino era un uomo di grande rigore e determinazione. Aveva una sicurezza nel lavoro che gli derivava dalla limpidezza del suo pensiero. Poteva difendere la scelta di un colore fino allo stremo. Guai a disubbidirgli. Un’unica volta ho fatto di testa mia. Lavoravamo all’Innocente. La polemica si accese su un tailleur di Laura Antonelli che D’Annunzio descriveva di vigogna. Per Visconti doveva essere beige; io lo vedevo grigio. Discutemmo a lungo e alla fine seguii il mio istinto. Quando la Antonelli si presentò sul set in grigio, Luchino non fece una piega: girò intrattenendosi amabilmente con Burt Lancaster e Silvana Mangano, in visita sul set. Pensai di averla fatta franca, ma, tornato a casa, ricevetti una lettera dove garbatamente mi confessava che, per la prima volta in venticinque anni, l’avevo deluso. Qualche settimana dopo morì”» (Brunella Schisa).
• «Io, poi, sono un ‘cacadubbi’. Ci sono artisti che hanno solo certezze e Visconti era uno di questi. Fellini invece era cinque ‘cacadubbi’. Ogni costume era tormenti infiniti, per me. La scelta del materiale, per esempio, per un costume è tutto. Io i pezzetti di stoffa me li portavo a letto e passavo la notte toccarli e ritoccarli per capire se andavano bene. Non le dico quando poi l’attrice doveva indossare il vestito che mi era costato sofferenze... Un costume deve dare il quid del personaggio».
• «Quando penso in quali condizioni eravamo costretti a lavorare, dico ai miei studenti: ringraziate il cielo che avete a disposizione tanti libri fotografici e materiale iconografico. Io, ai miei tempi, non sapevo dove sbattere la testa. Ricordo che nel 1954, fui incaricato dei costumi per lo Zio Vania di Luchino Visconti, ero disperato. Non esistevano documenti né fotografie della Russia di fine Ottocento. Fortunatamente Roma era ancora piena di esuli della Rivoluzione d’ottobre e saccheggiai i loro album di famiglia».
• Lo definiscono come un gatto pigro: «Appena sento che mi si prende per la coda, scappo. Un tempo pagavano meglio di oggi, ma ricordo che quando dovevo firmare un contratto mi chiedevo, chissà cosa vorranno questi da me? E poi il terrore di essere perseguitato dai registi la notte» (Valerio Cappelli).
• I suoi no famosi: «Per La mia Africa c’era il lungo viaggio. Kubrick per Barry Lyndon disse che era abituato ad avere il meglio del mondo pagando il minimo: fui contento di vedere un tale capolavoro senza faticare. Con Bergman ci siamo sfiorati per tre volte: una Vedova allegra che poi saltò con Barbra Streisand. Poi Ingmar venne a Cinecittà, dove stavo lavorando con Fellini, il quale per tutto il tempo parlò di Kubrick ignorando Bergman. Finì nel gelo. Poi il terzo rifiuto» (Valerio Cappelli).
• «Ho sempre lasciato spazio. Anche ai giovani. Mi son sempre detto che bisogna avere buoni rapporti con tutti. Se no, sai quante vipere avrei avuto addosso».