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 2012  giugno 03 Domenica calendario

«ASSALGO L’ESSENZA DEL VISIBILE» — C’è

un tratto di nobiltà e di misura nordico nel siciliano Piero Guccione, anche nel profilo del suo viso che riassume quello di Renato Guttuso e quello di Marlon Brando. Il pittore della sintesi tra luce e ombra, ma anche il poeta della dilatazione del paesaggio verso l’infinito che risolve ogni contrasto e ogni opposizione. Parlando della sua opera, Giorgio Agamben ha chiamato in causa l’aggettivo lucreziano «tenue», che significa insieme teso e sottile. C’è un’eleganza e una fermezza nelle parole che pronuncia Guccione, seduto su una poltrona della sua casa di campagna tra Modica e Scicli, in Contrada Quartarella. Da qui non si vede il mare ma lo si intuisce, oltre i muri a secco. Il suo mare, i suoi orizzonti che sulla tela sembrano svaporare sempre di più. Il suo amico e critico Paolo Nifosì, soffermandosi sulle illustrazioni, ha intitolato opportunamente un suo saggio con una formula che racchiude il significato profondo del percorso pittorico di Guccione: L’essenza del visibile.
Un lungo percorso ha portato il settantasettenne Guccione a questa approssimazione, da quando nel 1935 nacque a Scicli da una padre sarto, molto stimato in città, e da una madre dedita ai figli, Piero e le sue due sorelle: «Scicli era allora una città contadina, tutto ruotava intorno alla campagna. La passione per l’arte nacque in me intorno alla terza media e da allora si sviluppò in maniera definitiva. Dopo la quarta ginnasio, chiesi a mio padre, che era un uomo molto sensibile, di lasciare. Mi accontentò. A Comiso c’era una bella scuola d’arte fondata dal fascismo e molto attrezzata. Mi piaceva molto, cosa che mi è rimasta anche nella vecchiaia, copiare le figure classiche». Dopo un anno, il giovanissimo Guccione si trasferisce a Catania, dove nel frattempo si era aperto un istituto d’arte diretto dal pittore e scultore Mimi Lazzaro. «Gli artisti a cui guardavo erano quelli di scuola romana, da Mafai a Guttuso a Pirandello, anche se le loro opere non mi erano visibili direttamente. Catania era una città molto vivace negli anni 50, allora la natura dei suoi abitanti era ancora abbastanza piacevole».
Dopo tre anni, nel ’54, la meta è Roma, ufficialmente l’accademia: in realtà Guccione segue un corso parastatale di cartellonistica pubblicitaria e nel frattempo frequenta gli artisti che ha imparato ad amare da lontano. Il suo è un racconto sobrio, privo di nostalgie e di autocelebrazioni. Una voce che anche nelle esitazioni somiglia a quella di Mario Luzi: «Avevo conosciuto Guttuso, andavo a trovarlo nello studio di Villa Massima. Era molto più noto di Mafai o Pirandello, che erano artisti più segreti, più legati alla loro ispirazione che all’impegno politico. Guttuso mi attraeva molto, anche se non l’ho mai sentito particolarmente vicino sul piano artistico: tutto posso dirmi tranne che guttusiano. Mi presentò la prima mostra, nel ’60, alla Galleria Elmo. In quegli anni mi legai soprattutto a pittori più grandi di me, Vespignani, Accardi, Ferroni».
Nel ’59-’60 l’esperienza nel Sahara Libico, dove, chiamato dal paleontologo Fabrizio Mori, Guccione ricopia su pellicole, con un pennello intinto di tempera bianca, i contorni delle figure rupestri preistoriche. Si inventa una tecnica sua, disponendo uno strato di sabbia sui pannelli di carta e colorandoli a tempera, in modo che le pitture vengano assorbite restituendo l’effetto-roccia. Un successo internazionale che arriva in America. L’amore per il paesaggio diventa la cifra inconfondibile del pittore Guccione: «Io ero e sono ancora oggi un pittore assolutamente visivo, non mi invento nulla, semmai invento dipingendo e il paesaggio si presta molto a questa attività». Una lunga fedeltà al visibile, partendo dagli scorci urbani di Roma, angoli, inferriate, balconi... «Ancora oggi tutto parte dall’osservazione della realtà, anche se si verifica un processo di astrazione in cui sopravvivono piccoli elementi naturali».
Modelli e affinità. I critici hanno citato Cézanne: «È stato il mio grande amore giovanile tra i 16 e i 18 anni». E poi tanti altri, da Sutherland a Bacon, che incontrò a colazione a Roma con Balthus e di cui scrutò, senza toccar cibo, la «faccia impressionante»: «Era un uomo invisibile, che non si lasciava penetrare». E Munch: «Negli anni 60 andai in Norvegia per vedere direttamente le sue opere, volevo dipingere la sua vita con dei quadri abbastanza grandi, ne cominciai alcuni, ma poi non ne feci quasi nulla». E la vicinanza mai nascosta per il grande Nicolas De Staël. Nel ’79, Guccione è stanco di Roma: «In realtà non ho mai abbandonato la Sicilia. In estate tornavo, poi la famiglia rientrava a Roma e io rimanevo sempre di più da solo in una casa sul mare: avevo già cominciato a dipingere i paesaggi marini».
Guccione si innamora di una pittrice nata a Marsiglia da genitori greci, Sonia Alvarez, e insieme decidono di trasferirsi da queste parti. «A Roma mi ero sempre sentito non dico proprio un estraneo ma quasi… Mi mancava la luce, essenzialmente. La mia fanciullezza a Scicli era stata molto armoniosa, con amicizie affettuose: era un ricordo di armonia, mentre Roma era diventata una città antipatica e sporca. Le due cose associate mi hanno riportato qui». A Roma aveva frequentato Moravia, qui aveva già conosciuto Gesualdo Bufalino: «Personaggio speciale, non era buono, però aveva un modo d’essere autenticamente fanciullesco, senza bonarietà. Mi piaceva il suo amore appassionato per Sciascia».
Scompaiono gli amici e svapora anche il filo dell’orizzonte dalla tela. Forse c’è qualcosa che unisce quelle due perdite. «Per me è un mistero. Deve aver giocato molto il fatto che dopo tanti anni mi è venuta fuori un’immagine esatta dell’infanzia, di quando avevo, non so, credo 5 anni a Donnalucata: era il mare che vedevo scendendo verso la spiaggia su una stradina, con il vento di ponente le onde dell’acqua viaggiavano da destra verso sinistra. Quell’immagine mi è venuta fuori molti anni dopo come se avessi mantenuto con essa un contatto esile, ma resistente. L’orizzonte è stato sempre una mia ossessione, un luogo in cui si depositavano i miei sogni». È vero che l’orizzonte è svaporato, ma continua a esistere quasi invisibile come quel ricordo lontano. «L’ho sempre immaginato come necessità non visiva, ma di spazio e di presenza. Può darsi che questo sfaldamento a cui lavoro anno dopo anno abbia un suo significato, anche se non so quale».

Ispirazione è una parola che non gli piace: non deve amare l’eco romantica che si porta dietro. «Credo che ci sia un momento in cui si sente la necessità di uscire da sé, un bisogno di assalire la cosa che nasce nell’immaginazione, assalirla con grande violenza e determinazione. Una necessità fisica, un’urgenza». Nel rapporto anche con la storia di questa terra tormentata? «La storia non è mai stata nei miei interessi più visibili. C’è solo qualche accenno qua e là a situazioni tribolate della terra e del paesaggio che possono fare pensare a una concatenazione significativa, ma senza grandi pensieri. Per esempio, di recente ho dipinto un mare nero fatto di plastiche, che allude al cimitero che è diventato, ai barconi che affondano. Mi sono ricordato di un quadro di Courbet in cui si vede lui che saluta il mare: ecco, nel mio quadro c’è una figura quasi scheletrica che guarda un mare di plastica nera. Era un omaggio a quei poveri morti».
E questa terra? Luce e ombra? Anche dolore e tragedia? Che cos’è la sicilitudine? «Non lo so, forse un carattere di continuità nell’animo siciliano c’è: può essere la sua complessità, la sua struttura complessa e spesso difficilmente comprensibile. Una complessità che non va mai presa nella sua immediatezza, ma che va decostruita e poi ricostruita. Del resto anche il paesaggio e la storia qui sono complessi. Non mi azzarderei ad andare oltre».
Paolo Di Stefano