3 giugno 2012
Tags : Angelo Siino
Biografia di Angelo Siino
• San Giuseppe Jato (Palermo) 25 marzo 1944. Pentito, a suo tempo mafioso. Mafioso da parte di madre, figlia del boss Giuseppe Celeste (ucciso nel 1921). Consigliere comunale della Dc a San Giuseppe Jato, poi imprenditore (la ditta di famiglia), infine massone, cooptato da Stefano Bontate nella loggia Camea, col grado 33. Ma non affiliato alla mafia («sono stato legato a Cosa Nostra da un lungo sodalizio, ma non sono un uomo d’onore. Pungiuta, giuramento, patto di sangue... non mi hanno mai affascinato»). Amico anche di Giovanni Brusca. Per la mafia teneva i contatti con i politici, specialmente con Salvo Lima.
• “Metodo Siino” («un metodo simile al mestiere più antico del mondo, quello delle signore che battono»): in pratica gestisce i lavori pubblici, organizzando i cartelli tra gli imprenditori, che si mettono d’accordo sull’ammontare di ciascuna offerta nelle gare d’appalto in modo da vincere a rotazione (per l’aggiudicazione erano sufficienti ribassi minimi, anche dello 0,50 per cento). Su ogni opera pubblica era imposta una mazzetta del 4,5 per cento (di cui il 2 per cento andava alla mafia, altrettanto ai politici, e lo 0,50 agli organi di controllo). Secondo Siino prima le mazzette erano prese solo dai politici. «Io mi ricordo che ci fu il fatto che i mafiosi dicevano a un certo punto meravigliandosi: “Si fregano il 3%, il 5% e noi dobbiamo stare qui a guardare, ma siamo pazzi, ma come, ma questi sono più ladri di noi, noi che stiamo a rischiare col fucile in mano e questi che stanno dietro a una scrivania”». Con questo lavoro si guadagna il titolo di ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra.
• A un certo punto il suo metodo scontenta Riina, a cui proprio non andava giù il coinvolgimento nella distribuzione degli appalti delle cooperative rosse, e nell’89 viene sostituito nella gestione dei lavori pubblici di Palermo da un comitato paritetico, chiamato ’u tavulinu (a cui partecipano Pino Lipari, prestanome di Provenzano, Antonio Buscemi, capomandamento di Passo di Rigano, Gianni Bini, rappresentante in Sicilia della Calcestruzzi di Raul Gardini, e il costruttore agrigentino Filippo Salomone). Continua allora a gestire gli affari di Caltanissetta (per conto di Pippo Madonia), Catania (per Santapaola), Agrigento (Peppe De Caro), Trapani (Messina Denaro).
• Viene arrestato il 10 luglio 1991. Secondo lui a farlo arrestare sono stati gli stessi mafiosi che gli erano ostili: «Cosa Nostra gioca sempre su due tavoli, sul tavolo della giustizia e sul tavolo del fucile, per cui non potendomi sparare mi volevano fare arrestare, in qualsiasi modo». Nel 95 viene messo agli arresti domiciliari per motivi di salute. Per un po’ continua a tenere contatti con Brusca, Provenzano e allo stesso tempo fa da confidente dei carabinieri, ma nel 97 viene di nuovo incarcerato. Nello stesso periodo arrestano suo figlio con l’accusa di avere spacciato una pastiglia di ecstasy e questo lo convince a collaborare.
• Il famoso rapporto mafia – appalti dei Ros, consegnato alla Procura di Palermo a spizzichi e bocconi, all’inizio senza i nomi dei politici (Salvo Lima, Rosario Nicolosi e Calogero Mannino), per poi accusare i magistrati di avere insabbiato l’inchiesta (quando non potevano farlo, perché i nomi dei politici non erano indicati). Il capitano De Donno in particolare aspetto cinque anni per accusare il pm del processo Andreotti, Guido Lo Forte, andando alla Procura di Caltanissetta a dire che aveva passato il rapporto a Siino, per favorirlo e che la fonte era proprio Siino. Lo Forte iscritto sul registro degli indagati, la notizia trapelava su “Repubblica” proprio il giorno prima della prima udienza del processo Dell’Utri, il 5 novembre 1997. Siino, però, che nel frattempo si era pentito, a sua volta rivelava che De Donno gli aveva offerto 800 milioni se andava a dire che Lo Forte era uno avvicinabile. E per farsi credere portava pure i nastri su cui sua moglie aveva registrato De Donno, quando andava da lei perché lo convincesse ad accusare Lo Forte (tutta la vicenda è stata archiviata dal GIP di Caltanissetta).
• Nel maggio 2011, rendendo dichiarazioni nel processo per favoreggiamento nei confronti del generale Mario Mori e del colonnello Mario Obinu (per la mancata cattura di Provenzano nell’ottobre 95), raccontò di quella volta che il colonnello Carlo Meli si fece sfuggire Provenzano per l’emozione. Aveva portato i carabinieri ad Aspra per fare vedere i luoghi frequentati da Provenzano. Quando incrociarono un’auto e lui urlò: «Quello è Provenzano!», ma Meli non riuscì a fare la retro e se lo lasciò sfuggire. Raccontò anche di essere stato contattato più volte dal generale Mori e dall’allora capitano Giuseppe De Donno, che volevano convincerlo a pentirsi. Lui iniziò come confidente (cioè parlava, ma non metteva la firma), salvo avere l’impressione che delle sue indicazioni non se ne facessero niente.
• Ora vive in una località segreta con la moglie, ha cambiato generalità due volte. Il figlio lo ha fatto trasferire all’estero («vive in un posto abbandonato da Dio e dagli uomini, dove si dedica ai bambini. Vive con quello che guadagna e vive male, male, male»). Prima dell’euro prendeva dallo Stato in quanto collaboratore due milioni e duecentomila lire.
• È affetto da rotacismo. (a cura di Paola Bellone).