Simonetta Agnello Hornby, Corriere della Sera 3/6/2012, 3 giugno 2012
«Evita i Windsor: non mi piacciono», mi raccomandò papà prima che — diciassettenne — andassi in Inghilterra
«Evita i Windsor: non mi piacciono», mi raccomandò papà prima che — diciassettenne — andassi in Inghilterra. «E’ improbabile», gli dissi. Lui rispose, «non si sa mai». Nel 1977 ricevetti un invito con tanto di stemma, ad un incontro tra regina e «il popolo», organizzato per il Silver Jubilee. Lo avevamo già festeggiato con uno street party: tavolate sui marciapiedi e giochi per i bambini; festa di quartiere più che celebrazione della monarchia. Un’amica di Boston mi chiese di andarci. «Certo», fu la risposta alla mia richiesta, «la porti, ci sono tanti posti». Allora non c’era entusiasmo per la monarchia, le battute sprezzanti del duca di Edimburgo gli avevano alienato il pubblico e la gente era stanca della regina, compita e senza alcuna spontaneità e dei suoi figli. Durante l’incontro lei, occhi brillanti e sorriso a luna piena, scambiò parole con gli anziani e i reduci di guerra, meno con i giovani. Il matrimonio di Carlo e Diana nel 1981 non risanò la popolarità della famiglia reale. Tradita dal marito e a sua volta adultera, odiata dal suocero, Diana, amatissima dal popolo, riempì i rotocalchi delle sue fragilità a scapito dei reali. Alla sua morte nel 1997 la monarchia cadde in un declino inarrestabile. Una sconfitta personale per la regina. Quella settantenne di media intelligenza e modesta cultura, ha avuto la tenacia e la umiltà di cambiare e riscattarsi, lavorando senza sosta. Con la vecchiaia la mediocrità di pensiero è diventata saggezza, l’immancabile cortesia comprensione, l’ alterigia — smussata dalla reazione del popolo alla morte e ai funerali di Diana — dignità. Ha imparato a parlare in modo più accessibile alla gente comune, e oggi rappresenta i valori dell’essere britannico. Mentre scrivo ascolto alla tv gli spari dei cannoni a Horse Guard Parade che danno inizio alle festività. Oggi la regina è alle corse di cavalli di Epsom, ha rifiutato di rinviarle. Sospetto volesse alleggerire i quattro giorni di feste con un cosa che le piace davvero. O forse è l’effetto della frase di Giorgio VI, che durante i bombardamenti della guerra ripeteva ai londinesi «Keep calm and carry on». Queste parole, riprodotte su tutti i souvenir, dalle tazze alle cartoline, sono diventate il motto del giubileo e dell’Austerity Britain. Lei mantiene la calma andando alla corsa dei suoi cavalli, e noi? Se i festeggiamenti del primo giugno alla scuola elementare Christ Church di Brixton fanno testo, noi celebriamo la nostra Londra e così sarà in tutte le altre città del Regno. A mezzogiorno trecentocinquanta bambini dai 4 agli 11 anni sedevano nel cortile della scuola ad un enorme tavolo a forma di E. Tranne per l’uniforme, le corone di cartone e le bandierine di plastica, quegli scolaretti non sembravano avere nulla in comune. Il 50% di loro non è di madre lingua inglese e parla 45 lingue diverse, molti ricevono il pranzo gratuito. Quella mattina hanno presentato a parenti e amici la «loro» interpretazione del regno della regina, decennio per decennio: date, avvenimenti, personaggi e musica pop. Recitavano. Cantavano. Ballavano. Dopo genitori e nonni hanno trasportato il cibo preparato da loro a tavola, aiutati da tutto il personale della scuola, dal preside al bidello. Il cibo è internazionale, come gli alunni. Alcuni gustano piatti diversi per la prima volta. «Cosa è questo?», dice uno sollevando una tortilla. «Lo prepara mio padre», dice l’altro, «è buono». «Non mi piace l’odore», dice un altro e sniffa il ketchup. «Provalo!», lo incoraggia una bambina. I commenti ai dolci sono soltanto «Sì, grazie» e «Posso prenderne un altro?». Cammino tra cappelli tricolore, bandierine e coccarde, con una guantiera di dolci. Ad un tratto, silenzio, il cucchiaio sospeso: parla il preside. «E’ anche la vostra festa, quella dei bambini che fanno parte della nazione». Nel frattempo i maestri distribuiscono palloncini bianchi rosso e blu. L’orchestra della scuola suona l’inno nazionale. Al cenno del preside i bambini aprono le mani e con un urlo lasciano andare i palloni. Salgono, tutti i trecentocinquanta palloni, nel cielo di Brixton, e vanno insieme sospesi nell’aria. Il vento li porta a sud; diventano piccoli come api che ronzano, poi puntini e scompaiono. Dal cortile si leva un battimani commosso. A Brixton, quartiere di forte immigrazione che ha sofferto tre moti in trent’anni, il giubileo ha cementato ancora di più l’identità della nazione; il senso di unità è più forte di quello del 1977, non solo grazie alla regina ma alle persone come il preside e gli insegnanti di Corpus Christy, e a milioni di altri britannici come loro. Vorrei dire a mio padre, oggi, che anche tra i Windsor ci sono delle belle persone, e in particolare una ottantaseienne lavoratrice instancabile, ma io rimango repubblicana. Scrittrice siciliana, vive a Londra dal 1972, tra i suoi libri, «La Mennulara»