Viviana Kasam, Domenica-Il Sole 24 Ore 3/6/2012, 3 giugno 2012
I NEURONI DI ANÌ
Anirban Bandyopadhyay - Anì per gli amici e nella comunità scientifica, causa l’impronunciabilità del suo cognome - non è un oratore trascinante, anzi, si fa fatica a capirlo, nel suo inglese perfetto ma pronunciato all’indiana. Ha il piglio del primo della classe, con troppe cose da dire e troppo poco tempo per farlo. Non è facile nemmeno comprendere la complessità della sua visione. Però si ha la netta impressione di trovarsi avanti a un genio. Impressione condivisa dalle trecento e più persone che hanno avuto il privilegio di ascoltarlo la settimana scorsa a Fabriano, durante il festival Poiesis.
Secondo questo giovane scienziato, 36 anni, che lavora in Giappone, a Tsukuba, presso il Nims, e ha già avuto due ricerche pubblicate su Nature, è inutile accanirsi nel tentare di riprodurre l’attività cerebrale con computers sempre più grandi e sofisticati e attraverso istruzioni sempre più dettagliate e complesse. «L’intelligenza è un pattern – sostiene – non una serie di informazioni binarie. Per questo non concordo con chi sostiene che il cervello è un computer. Il cervello non ha software: è tutto hardware e funziona con soli 24/25 watt di energia».
È da qui che bisogna partire. Anì è radicalmente contrario ai progetti, tipo Connectomy in America e Blue Brain in Europa, che cercano di creare cervelli artificiali utilizzando megacomputers, che consumano 800/1.000 megawatts di energia (quella di una grande centrale nucleare) e richiedono trilioni di algoritmi basati sul principio "if.. then..".
«Non arriveranno mai a creare un cervello pensante, capace di imparare e soprattutto di sbagliare - e l’errore è il fondamento del progresso, spiega -. Al massimo, otterranno un robot capace di eseguire compiti complessi. Ma un cervello artificiale di quel tipo non arriverà mai a riconoscere un cane da un gatto, cosa che un bambino di pochi mesi sa fare».
E allora? Allora bisogna partire da qualcosa di completamente diverso. Un cervello artificiale che sia tutto hardware, costituito di materia organica capace di svilupparsi da sola, funzionando con la modalità dei frattali, che si moltiplicano restando uguali a se stessi. Anirban c’è riuscito, utilizzando le nanotecnologie, che erano il suo campo di ricerca finché il padre non ha avuto un ictus «e mi sono chiesto che cosa potevo fare per riparare il suo cervello».
Quattro sono i principi "assolutamente innovativi" su cui lavora il prof. Bandyopadhuyay per costruire un cervello biologico artificiale:
non è necessario il software. Le istruzioni sono codificate all’interno del materiale organico;
deve funzionar con bassa energia (24/25 Watt) come il cervello reale. «Il futuro è della tecnologia a bassissimo consumo energetico, anche per le apparecchiature che utilizziamo quotidianamente», profetizza;
deve poter imparare dall’esperienza. Come i bebè, diventa più intelligente crescendo. Il processore deve poter cambiare i suoi circuiti mentre impara, come fa il cervello umano.
deve possedere i sette livelli di intelligenza (le "seven lands of wonders" codificati già nei Veda, spiega Anì, cultore della tradizione indiana, dal sanscrito ai Veda, ai Raga: la sua piattaforma per creare la macchina superintelligente si chiama Brahma). Sono, in ordine crescente: un buon livello di elaborazione delle informazioni; l’associazione degli eventi presenti a quelli del passato; la correlazione tra eventi diversi; la previsione del futuro; la ricostruzione indiziaria del passato; l’immaginazione di passato e futuro a partire da minimi input sensoriali; la coscienza, o livello dell’identità.
E come si ottiene tutto ciò? Bandyopadhyay ha messo a punto un jelly, una gelatina, costituita da semplici molecole organiche della famiglia dei chinoni, inserite in un brodo di coltura e che vengono "istruite" attraverso input di luce laser, agenti chimici o campi elettrici che agiscono direttamente sulla materia, cioè sull’hardware, o se si vuole essere precisi sul wetware, fissando particolari parametri di simmetria negli oscillatori. In questo modo diventa obsoleta la "programmazione".
Le molecole così facendo si aggregano in clusters sempre più grandi e con diversi livelli di frequenza, che simulano le aree del cervello e si specializzano in attività diverse ma correlate.
Dunque l’intelligenza artificiale non ha più l’aspetto metallico e rigido del robot o del computer; è piuttosto una gelatina apparentemente amorfa, ma composta di molecole organiche complesse, capaci di interagire tra loro creando dei frattali che ripetono in ogni livello la stessa ramificata struttura. Esistono già, e il professore ne proietta fotografie e filmati.
Quali sono le applicazioni? Infinite, spiega il professore. In futuro, ottenere dei robots che imparano dall’ambiente e che possono affrontare situazioni nuove.
Più prossima la possibilità di costruire entità intelligenti di ogni dimensione, dal nano al mega. «Già esistono i nanobots (capsuline intelligenti) che possono essere iniettati nel corpo umano e distruggere selettivamente le cellule malate», spiega il professore. «Quello a cui sto lavorando è la creazione dei nanobrains, per esempio di nanochirurghi in grado di operare il cervello dall’interno, e in una emorragia cerebrale rimuovere i grumi e il sangue. Stiamo già facendo i test nelle cellule umane. E stiamo affrontando in modo assolutamente innovativo l’Alzheimer. I nanobrains potranno rimuovere le placche amiloidi, ma anche lavorare sui microtubuli, le piccole strutture di micro-elaborazione dei segnali all’interno dei neuroni e ripararli evitando la denaturazione di proteine, che è la causa della malattia».
Quanto tempo ci vorrà? «Ci stiamo lavorando, attraverso due strumenti: le differenti bande di frequenza dei biomateriali e l’azione fisica dei nanobrains. Ci vorrà del tempo, ma non dieci anni», spiega sorridendo sotto i baffetti neri Anì. Che non pago di rivoluzionare la ricerca sul cervello sta mettendo a punto, con un gruppo di colleghi, una riforma totale dell’istruzione in India. «Avevamo uno straordinario sistema di insegnamento, che ha prodotto una cultura altissima: gli inglesi lo hanno distrutto», spiega.
Curiosa combinazione di attaccamento alla tradizione e di visione proiettata nel futuro, Anirban nel tempo libero si diletta di pittura tradizionale indiana, di musica classica Raga e di studio del Sanscrito, «la lingua del pensiero per eccellenza» dice con orgoglio.