Mario Serenellini, la Repubblica 3/6/2012, 3 giugno 2012
Con Giorgio Gaslini, la città è subito jazz. Si va in taxi, per sincopi e accelerazioni nel gran traffico di corso XXII Marzo, verso la casa d´infanzia
Con Giorgio Gaslini, la città è subito jazz. Si va in taxi, per sincopi e accelerazioni nel gran traffico di corso XXII Marzo, verso la casa d´infanzia. E il tassista non tarda a sfoderare il refrain d´una vita di lavoro, «quarantacinque anni su e giù», le vacanze che si contano «su queste dieci dita». E io, cosa crede?, gli fa eco Gaslini, che rilancia con accorto rollìo di batteria spolverando l´anagrafe: «Quanti anni mi dà?». «...una settantina?». Ottantadue, è il colpo di piatti. Ottantatré, per l´esattezza, il 22 ottobre. Ma la session dell´improvvisazione è nel cortile del condominio dove il futuro musicista si divertiva da piccolo con il fratello maggiore e il compagno di giochi che oggi, di nuovo sdentato come allora, l´ha visto arrivare e gli va incontro festoso. Il duo diventa presto quartetto, con custode e signora amica, poi ottetto: voci calde, rapide evocazioni, larghi gesti d´amicizia. «Vivevamo a pianterreno: su quelle tre finestre dava il salone con il pianoforte verticale. E mio fratello alla tastiera, controvoglia, con una specie di maestrina dalla penna rossa. Io stavo lì a dar loro fastidio, giocavo coi tasti, correggevo mio fratello: no, è un fa diesis. Un vero rompiscatole. Finché mio fratello s´è scocciato e mio padre ha capito: gli ha tolto l´insegnante e l´ha passata a me. Ma con la sana minaccia che s´usava nelle famiglie d´un tempo: è una cosa seria?». Gaslini è nato qui, qui è nata la sua musica: «I miei si erano separati quando avevo cinque anni. Che tragedia», e il suo sguardo è lontano, come se parlasse di un altro. Ci saranno nuovi luoghi da visitare in quella gimkana-jazz che è la Milano di Gaslini. Ma è qui che si sosta di più, nel calore d´una giornata finalmente estiva, con un sole antico che entra nella pelle. Che cosa le evoca il luogo d´infanzia? «Una pioggia di bombe: tutte le bombe possibili di una guerra. La sera ci si rifugiava in cantina, che era come entrare in una trappola per topi. Notti d´inferno. Ma già all´alba erano tutti in strada a spalar via le macerie». Milano sotto i bombardamenti era stata una sosta forzata: «Mio padre, giornalista, studioso di cultura africana, ci aveva già iscritti in una scuola in Eritrea. Felicissimi di partire: avevamo letto Salgari, per me e mio fratello l´Africa era la foresta, l´agguato felino. Io m´ero preparato una cassettina di medicinali, contro i veleni». Ma alla dichiarazione di guerra, il padre, già medaglia d´argento nel ´15-18, richiamato sotto le armi, deve rientrare con i figli: «Siamo rimasti soli, mio fratello e io: niente madre, che se n´era andata, niente padre, chiamato al fronte». Il pianoforte è stato il vero rifugio? «A nove anni avevo già avuto il mio battesimo musicale, credo al Porta Romana». Dove il taxi swinga in fretta, due parallele più in là, ma il teatro non c´è più: «Avevo esordito in pubblico in un concorso di talenti under 10, che schierava una ballerina, l´immancabile tenorino e un comico. Buffissimo. Schizzava come una molla dalle quinte, le smorfie irresistibili. "Sei proprio bravo, come ti chiami?". "Walter". Siamo rimasti amici tutta la vita. Era Walter Chiari». Il taxi blues nella Milano di Gaslini sfiora la Palazzina Liberty, dove a fine Sessanta s´era insediato Dario Fo con la Comune: «Una sera lo vedo su una scala che perlustra il tetto. "Che fai?". "Controllo che non abbiano messo bombe"». Stop fuori programma per una fumatina, un morigerato assolo con la pipa. Solida, gaudiosa, ricurva, la stessa immortalata, con lui, sulla copertina di Jazz.it, che gli dedica un numero monografico per l´uscita di Piano solo-Incanti, registrazione del concerto di un anno fa in cui ha reinterpretato cinque secoli di musica, da Monteverdi a Cole Porter. Perché piano solo? «È stato Oscar Peterson a incoraggiarmi, già una quarantina d´anni fa, a produrmi in concerti di piano solo: consuetudine, all´epoca, della musica classica, non del jazz. È così che sono stato invitato al festival di New Orleans, per due edizioni di fila, unico bianco ed europeo in mezzo a mostri sacri come Ella Fitzgerald, Count Basie, Sonny Rollins. Uno dei miei tanti espatri jazz, in novanta nazioni, Cina inclusa». Tributi ai suoi pionierismi di docente e di compositore? «Quando ancora non c´erano cattedre di jazz nei Conservatori i miei corsi nel 1972-73 al Santa Cecilia sono diventati il vivaio di una nuova generazione jazz. E a fine anni Settanta a Milano, alla Sala Puccini, mi sono ritrovato con mille iscritti». Qual è la sua maggiore soddisfazione di autore e interprete? «Tempo e relazione, piccola suite in cinque movimenti, sintesi di jazz e dodecafonia. È la chiave di volta del mio lavoro, il germe di quella che ho poi definito musica totale. L´ho eseguita la prima volta nel 1957, a un burrascoso Festival del jazz di Sanremo, preceduto da Sidney Bechet, riveritissimo da noi dell´ambiente perché a Parigi si vedeva con Joséphine Baker». A quella suite deve importanti sbocchi anche cinematografici, a partire dalla colonna sonora di La notte: «Il film di Antonioni, che ho girato nel ´60 con il mio quartetto sull´umidissimo prato di un golf club, dal tramonto all´alba per un mese, m´ha aperto come a un divo le porte del cinema. Il grande schermo aveva scoperto il jazz tre anni prima, con gli splendidi assolo di Miles Davis improvvisati sulle immagini di L´ascensore per il patibolo di Malle. Ne è nata una jazz-cinemania: Jancsó m´ha chiamato per La pacifista, Nelo Risi per La colonna infame, Lizzani per Kleinhoff Hotel, Dario Argento per la miniserie tv La porta sul buio e Profondo rosso, con i Goblin. Il jazz sempre associato alla suspence, chissà perché». L´on the road metropolitano di Gaslini ripassa per l´infanzia e una Milano scomparsa, dove c´erano, appena finita la guerra, una sala di cinema e una da ballo: da una si fa cacciare («nell´intervallo tra le proiezioni provavano i musicisti, io ero ancora con i calzoni corti, risultato: "Sei un pinella, vai via"»), nell´altra s´intrufola quand´è vuota («e, faccia di tola, formo addirittura un gruppo con altri ragazzi»), finché arriva un ingaggio zoppicante «in un locale in viale Umbria, dove troneggiava un piano a coda, con una sedia al posto d´una gamba: per via d´una rissa». Comincia così il saranno famosi di Gaslini e dei suoi complessi successivi, trii, quartetti, quintetti, ottetti? «Sì, miei arrangiamenti trasmessi alla radio arrivano all´orecchio di Pippo Barzizza, quello di Pippo non lo sa, fan di Benny Goodman, il primo che, dopo i veti autarchici, s´interessasse seriamente al jazz. Finisco nel suo angolo musicale a Il rosso e il nero, seguitissimo programma del sabato sera condotto da un´altra rarità d´epoca, Nunzio Filogamo». Epoca in cui la radio era, più della televisione oggi, l´unica protagonista dell´intrattenimento domestico: «Mi ha dato la popolarità e per tre anni sono stato il pianista dell´Orchestra del momento, la prima big band italiana: venti solisti dentro un seminterrato della Borsa Valori, impreziosito da maioliche di Gio Ponti, la cosiddetta Taverna Ferrario. Ma...». Ma...? «Ma nel repertorio, mutuato dalle partiture dei maggiori jazzisti d´oltre Atlantico, ecco Stan Kenton, che aveva studiato con Edgar Varèse». Folgorazione? «Di colpo ho sentito riaccendersi i miei interessi musicali, che non si limitano al jazz ma si estendono a musica classica, folclore, canzone d´autore. Lascio tutto e a vent´anni m´iscrivo al Conservatorio, dove insegna Carlo Maria Giulini e ho per compagni di corso future leggende: Claudio Abbado, Luciano Berio, Niccolò Castiglioni, Giacomo Manzoni, Bruno Canino». Ipotetico ensemble da brivido: «Sodalizio ideale. I miei amori musicali, da ragazzino, erano state le Sonate di Scarlatti interpretate da Carlo Zecchi alla radio e, mio primo acquisto d´un 78 giri, il mitico Earl Hines: era il pianista di Louis Armstrong, dalla tastiera traeva suoni di cornetta». Come un 78 giri a raggio urbano, il tour si è raggomitolato pian piano fino a fermarsi alla Conca dei Navigli, sotto l´appartamento di Gaslini: pianoforte verticale e tanti quadri alle pareti, regali dell´amico Arnaldo Pomodoro. Appena sceso dal taxi già una signora gli sorride, un conoscente viene a stringergli la mano. La casa milanese di Gaslini è l´intera Milano: metropoli ridiventata rione, borgo, vicinato. Il sole infiamma i capelli bianchi, nuvola di fumo per pipa ricurva. Molti gli danno del tu, tutti lo chiamano Maestro. È un fine concerto per voci, lieve fruscio di percussioni, bisbiglio alla Max Roach.