3 giugno 2012
Tags : Francesco Zizola
Biografia di Francesco Zizola
• Roma 20 dicembre 1962. Fotoreporter.
• Uno dei più grandi fotoreporter contemporanei. Dalla fine degli anni Ottanta gira il mondo per documentare le condizioni dell’infanzia, dai figli delle guerre in Iraq, ai piccoli lavoratori dell’Indonesia, ai bambini di Los Angeles. «Caravaggio ha segnato il mio universo visivo, lo considero il primo grande fotografo in bianco e nero, pur avendo dipinto a colori. Altro grande autore di riferimento è Antonello da Messina».
• Vincitore più volte del World Press Photo e del premio Pictures of the year, ha fatto parte della storica Agenzia Magnum. La prima volta che ha visto un ingranditore è stato alle scuole medie inferiori. «Frequentavo una scuola sperimentale pubblica - la Montessori di via India, a Roma - che era geniale e che purtroppo poi hanno chiuso. Di pomeriggio facevamo lezione di sociologia, filosofia, fotografia, cineforum, giornalismo. Ricordo che ci venivano a parlare di cinema registi come Monicelli, Scola, Bellocchio, Germi, Pontecorvo. Insieme vedevamo i film che venivano proiettati con la pellicola 35mm. Lì ho visto anche il primo foglio bianco entrare nella bacinella dello sviluppo e trasformarsi in immagine, per me è stato un momento magico. Il mestiere di fotografo, naturalmente, l’ho imparato altrove, ma è lì che è stato gettato il seme».
• Ha iniziato a viaggiare molto nell’87-88, «sempre con l’intento narrativo». Il servizio in Corea del Nord del 1989, fatto in esclusiva al seguito di una delegazione internazionale di giovani comunisti, fu preso in esclusiva da Newsweek. «Ero un giovane sconosciuto, ma le poche agenzie italiane iniziarono a domandarsi chi fossi e da lì nacque con una, in particolare, una collaborazione».
• Primo reporter al mondo a mettere piede in un campo profughi nel Ciad.
• Grande lavoro sui bambini: «C’è un grande mercato di agenzie che prosperano sulla partecipazione dei bambini alla realizzazione dei film. Ho scoperto che esiste un vero e proprio business dei gemelli. Gli agenti vanno nelle cliniche dove le future mamme fanno l’ecografia e mettono sotto contratto i genitori prima ancora che nascano i loro figli». In Giappone ha indagato il fenomeno del suicidio di bambini e adolescenti, di cui il paese detiene il record mondiale.
• «Camminando per le strade mi rendevo conto che chi più assorbiva i problemi, o rifletteva le inquietudini di un futuro incerto, erano i bambini. Nell’89, a Berlino, seguendo la caduta del muro, sono stati i bambini a darmi la percezione che, al di là degli entusiasmi che venivano proiettati sulla caduta, quel crollo avrebbe lasciato un trauma profondo sulle società la cui struttura sociale e economica si disintegrava. Se si vogliono ottenere foto di bambini sorridenti, allora fotografarli è facile, perché ai bambini viene naturale interagire con la macchina. Se invece il fotogiornalista non vuole condizionare la scena con la sua presenza, allora sono i soggetti più difficili, perché davanti a loro non ci si riesce a rendere invisibile. La questione dell’invisibilità è al centro del mio modo di fare fotogiornalismo: come capacità di cogliere le situazioni per quelle che sono, senza che la presenza dell’operatore ne influenzi in alcun modo lo svolgimento. L’occasione di avere un testimone spesso scatena l’avvenimento: ad esempio, nelle fotografie scattate in Palestina, quando si vedono i ragazzini dell’intifada lanciare pietre ad uso dell’obbiettivo del fotografo, l’immagine è viziata da questa interferenza. Io ho cercato di sviluppare una tecnica di invisibilità per “assuefazione”, cerco di abituare il soggetto alla macchina fotografica fino a che la sua presenza diventa ininfluente. C’è da aggiungere che in situazioni di alta drammaticità si diventa invisibili per il naturale corso dei sentimenti umani. E questo è un altro motivo per cui ai fotografi che seguono realtà drammatiche è spesso permesso di avvicinarsi in punta di piedi e di partecipare» (Irene Alison). (a cura di Lauretta Colonnelli).