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 2012  giugno 03 Domenica calendario

Penso anch’io che purtroppo le clausole punitive per l’Italia del trattato di pace del 1947 per quanto riguarda la Dalmazia e l’Istria fossero difficilmente evitabili, considerando il peso dell’Unione Sovietica in appoggio alla Jugoslavia

Penso anch’io che purtroppo le clausole punitive per l’Italia del trattato di pace del 1947 per quanto riguarda la Dalmazia e l’Istria fossero difficilmente evitabili, considerando il peso dell’Unione Sovietica in appoggio alla Jugoslavia. Non sono però d’accordo sulla sua conclusione, secondo cui il protrarsi del negoziato al 1948 ci avrebbe in qualche modo favorito. Anzi in quell’anno, rompendo con Stalin in piena Guerra fredda, Tito divenne per gli anglo-americani un prezioso alleato. O perlomeno un leader in grado di riequilibrare gli assetti dell’area balcanico- danubiana, altrimenti tutta sbilanciata in senso filo-sovietico. E così il destino delle città italiane dell’Istria e poi di tutta la Zona B divenne un «piccolo prezzo» da pagare alle esigenze della «realpolitik» internazionale. Credo dunque che nel 1947, sul tavolo del negoziato di pace, il nostro Paese avrebbe potuto giocare soltanto la carta del referendum per affermare al proprio confine orientale il principio allora tanto sbandierato della autodeterminazione dei popoli. Ma contro questa soluzione evidente, i dubbi di Alcide De Gasperi sulla libertà di espressione del voto nelle zone già controllate dai titini, si sommarono all’atteggiamento «internazionalista» dei comunisti, convinti che la partita della via italiana al socialismo si sarebbe vinta a Roma e non a Fiume, a Pola o a Capodistria. Sergio Vascotto sergiovascotto@ libero.it Caro Vascotto, Non siamo in disaccordo. Mi sono limitato a osservare che se i negoziati per il Trattato di pace si fossero protratti sino agli inizi del 1948 e soprattutto sino al colpo di Stato comunista a Praga, le clausole sarebbero state diverse e forse l’intera operazione diplomatica sarebbe stata diversamente impostata. È certamente vero tuttavia che la bolla di scomunica lanciata da Stalin contro Tito nel marzo del 1948 ebbe l’effetto di modificare la posizione degli Alleati sui rapporti con la Jugoslavia e, quindi, sulla questione di Trieste. Le cose andarono così. Nelle settimane che precedettero le prime elezioni politiche italiane dopo l’approvazione della Costituzione, fissate per il 18 aprile 1948, gli inglesi, i francesi e gli americani decisero di fare un gesto che il governo De Gasperi avrebbe potuto esibire agli italiani come una prova della sua rispettabilità internazionale. Al presidente del Consiglio fu chiesto di scegliere fra due formule: la restituzione all’Italia della zona A del Territorio libero di Trieste (quella presidiata dagli Alleati) o una dichiarazione tripartita sulla necessità di attribuire all’Italia l’intero territorio. De Gasperi ritenne che l’accettazione della prima formula sarebbe stata interpretata come una rinuncia alla zona B (presidiata dalle truppe jugoslave) e preferì la dichiarazione. Ero allora a Parigi e ricordo bene che i giornali francesi dettero molta importanza alla notizia e uscirono il 20 marzo con grandi titoli di prima pagina. Malauguratamente, tuttavia, la promessa alleata giunse nelle redazioni e nei ministeri degli Esteri mentre da Mosca e Belgrado cominciavano ad arrivare le prime notizie sulla rottura che si era consumata fra i due Paesi. Il 18 marzo l’Urss richiamò i propri istruttori militari in Jugoslavia (una presenza comunque molto sgradita a Tito), e il 27 marzo giunse a Belgrado una lettera minacciosa di Stalin e Molotov. Dopo queste schermaglie venne un processo alla Jugoslavia che si celebrò a Bucarest e si concluse con la sua espulsione dal Kominform. Da quel momento Tito, per l’Occidente, cessò di essere un nemico e divenne il capo di un regime nazional-comunista inviso all’Unione Sovietica. Prevalse da allora il vecchio detto secondo cui «i nemici dei miei nemici sono miei amici».