Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Ci si chiede se l’acquisto della Indesit da parte degli americani abbia qualche altro significato oltre a quello, puro e semplice, della solita azienda italiana che passa in mani straniere.
• Intanto spieghiamo l’operazione.
Ma niente. La Indesit - fabbrica soprattutto di frigoriferi, con una lunga storia alle spalle, storia tutta italiana, cominciata in Piemonte e finita nelle Marche - adesso era in crisi, ossia, secondo la formula dei suoi, «aveva bisogno di un socio industriale», qualcuno che mettesse i soldi e la rilanciasse. In aprile permisero la due diligence - cioè il controllo dei conti - a cinque colossi, cioè Arcelik, Bosch-Siemens, Haier, Lg, Whirlpool. Nelle conferenze stampa intanto l’amministratore delegato Marco Milani prometteva investimenti per più di 80 milioni. Ma la via già scelta, e scelta da un pezzo, era la vendita. Ieri gli americani di Whirlpool hanno perfezionato l’offerta ed entro dicembre ci sarà un’opa sul restante 40% delle azioni e la firma di tutti i contratti necessari. La cosiddetta parte tecnica.
• Quanto pagano? E chi sono? Hanno rilevato il 66,8% delle azioni con diritto di voto corrispondenti al 60,4% del capitale. Prezzo 758 milioni, cioè 11 euro ad azione, il 5% in più della quotazione di Borsa. Il titolo ieri ha guadagnato il 3%, cioè si sta già avvicinando agli 11 euro concordati. Whirlpool è una multinazionale americana con 14 mila dipendenti, uffici e negozi in 32 paesi, stabilimenti in altre sette nazioni. È la prima al mondo nella fabbricazione dei grandi elettrodomestici, con un fatturato di 4 miliardi di dollari. La stranezza di Whirlpool - stranezza consolante - è che relativamente all’Europa ha scelto l’Italia come suo centro motore. Hanno messo a Comerio, in provincia di Varese, il Centro Operativo Europeo, dove lavora un personale proveniente da 27 paesi con 20 manager di sette nazionalità diverse. Centro di progettazione e design a Cassinetta di Biandronno (provincia di Varese) dove operano anche tre stabilimenti. Altri tre stabilimenti si trovano a Siena, Trento e Napoli.
• Non ci sarà una duplicazione con le fabbriche Indesit?
Il problema c’è, è una di quelle questioni che i nuovi padroni, peraltro esperti del sistema italiano, dovranno affrontare con i sindacati. Il marchio Indesit è particolarmente forte in Russia, che è una delle ragioni dell’interesse americano. L’industria del bianco da noi si salva solo con i prodotti di alta gamma e forte contenuto tecnologico. Il resto non può competere con la Polonia o con i produttori dell’estremo oriente (Corea del Sud e Cina specialmente). In Polonia il costo di un’ora di lavoro è di 6-7 euro, da noi di 24.
• Che cosa mi significano le domande iniziali sui sensi reconditi di quest’operazione?
C’è intanto un aspetto nostalgia. Il boom economico degli anni Sessanta - quando noi eravamo ancora nella felice condizione di figli, e lei non era nato - s’è giocato sulla diffusione dell’auto e degli elettrodomestici bianchi. Al gennaio del 1960 (ho preso i dati dal Corriere della Sera di quel periodo) in Italia c’era un frigorifero ogni 50 persone, in Svezia uno su 5, in Francia e Belgio uno su 20, in Germania uno su 25, in Inghilterra uno su 26. Spendevamo il 46% del reddito per mangiare, mentre negli altri paesi avanzati ci si nutriva con il 30% dello stipendio. Questi dati sono la premessa necessaria del boom, ma non rappresentano ancora una condizione sufficiente. La condizione sufficiente fu lo spirito di una schiera di imprenditori che si buttarono a fabbricare e far soldi contribuendo in modo decisivo alla crescita generale. L’Aristide Merloni nelle Marche (che aveva cominciato con le bilance), il trio Campioni-Candellaro-Gatta in Piemonte. Epoche finite, di cui la vendita della Indesit è un simbolo si direbbe definitivo. Poi c’è un’altra questione.
• Quale?
Quella domanda a cui non so dare risposta e cioè se sia vero che l’arrivo dello straniero non ha effetti sul nostro assetto complessivo, sulla nostra ricchezza, purché la fabbrica e la progettazione rimangano qua. Sarà davvero così? Alberto Bagnai sostiene che quello è un altro modo per estrarre ricchezza dal Paese e portarla da un’altra parte. Come mai i francesi resistono a ogni costo? Per il Club Mediterranée, il nostro Bonomi (che non rappresenta però solo capitale italiano) ha offerto 790 milioni di euro, ma i capi preferiscono i cinesi di Fosun, perché sono alleati con i connazionali di Ardian, benché di milioni ne abbiano offerti solo 563. C’è qualcosa che non capisco?
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