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 2014  luglio 12 Sabato calendario

L’incontro con Feltrinelli, l’emozione del primo libro

La Stampa, 19 aprile 2014
«La prima volta che lo invitammo a Milano ci accolse in un alberghetto vicino alla stazione. Era schivo, umile, delizioso, il tipico bohèmien. Faceva il giornalista corrispondente dall’Europa, ma gli era persino capitato di vendere la sua Olivetti, pur di tirare avanti». Inge Feltrinelli ricorda bene quel primo incontro, nel ‘67, con l’autore che stava per diventare un gigante internazionale, e una bandiera della casa editrice. Si trattava di firmare il contratto per Cent’anni di solitudine. «E lui non voleva neppure il fotografo».
Il romanzo era uscito in Argentina il 5 giugno di quell’anno, la casa editrice di via Andegari sarebbe stata la terza al mondo a pubblicarlo - dopo gli spagnoli, che si dice l’avessero rifiutato, anche se la vicenda non è molto chiara: un redattore della Seix Barral lo aveva infatti letto ancora inedito e ne aveva caldeggiato la pubblicazione. Forse fu l’autore a decidere diversamente. L’Italia, dove uscì nel ‘68, rappresenta il Paese non ispanofono dove la saga di Macondo ebbe il maggior successo. Il clima politico e culturale era tutto per Gabo, come gli amici chiamavano García Márquez: antiamericanismo, terzomondismo, voglia di sognare, desiderio di nuovi miti e, finalmente, anche di un romanzo leggibile.
L’editore ci credeva, ma all’inizio fu cauto. «La prima tiratura non superò le 8 mila copie: sparirono in una settimana. Il primo anno ne vendemmo centomila – racconta ancora la signora Inge – contro le diecimila dell’Inghilterra». Fu innamoramento collettivo, o quasi. «La gente non sapeva nulla dell’America Latina, solo che c’erano dei dittatori e che a Cuba aveva vinto Fidel Castro. Quel romanzo spalancò un Continente, e una letteratura, nei cui confronti facemmo da apripista, pubblicando tutti gli autori più importanti, da Vargas Llosa a Miguel Asturias».
Il fiuto editoriale di Giangiacomo Feltrinelli, dopo Il Gattopardo e Il dottor Zivago, si era rivelato ancora una volta straordinario. L’autore colombiano era infatti tra gli «osservati speciali» da qualche anno, da quando cioè Valerio Riva, grande cacciatore di letteratura straniera, nei giorni dell’assassinio di John Kennedy fu costretto nel suo volo verso Cuba a una sosta improvvisa a Città del Messico. Là, in casa di Carlos Fuentes, gli venne presentato un giovane intellettuale: «Sta scrivendo un romanzo, sarà il grande scrittore latino americano», disse l’ ospite. Era García Márquez. Tre anni dopo, quando uscì il libro in Argentina, Riva aveva già in mano un pre-contratto.
Da allora «Gabo» fu sì un fenomeno mondiale, ma per quel che ci riguarda rappresentò un caso tutto italiano. E lo scrittore, non più «felice e sconosciuto», cominciò a concedersi qualche innocente capriccio. «Quando gli arrivarono i primi diritti, e dunque un bel po’ di soldi, mi telefonò da Barcellona – ricorda Inge Feltrinelli –. Ho comprato una Bmw, mi disse, ma qui fa un caldo terribile; non c’è nessuno che mi mette l’aria condizionata; non è che potrebbe venire un meccanico da Milano?». Lui che durante l’anno di clausura in cui scrisse il romanzo, in Colombia, aveva venduto la vecchia Opel, ora si godeva il successo, seppure con una punta di stupore.
«Da allora ci vedevamo almeno una volta l’anno, a Cuba, per i convegni della Casa de las Americas. Gabo, che parlava benissimo italiano, imparato a Roma durante i corsi al Centro sperimentale di cinematografia, voleva creare – coi suoi soldi – una Cinecittà all’Avana. L’ambiente era lussuosissimo: lampade di Tiffany e telefoni bianchi, una Hollywood vintage nei Caraibi. Era serissimo, ma anche imprevedibile da tutti i punti di vista, un genio autoironico». Che a volte si divertiva anche nell’ambito della non facile corte cubana. «Una volta, eravamo proprio in attesa di Fidel, mi lamentai del freddo con il ministro Manuel Piñeiro, che era un po’ geloso di Gabo per via della sua intimità con Castro. C’era un’aria condizionata spaventosa, insistetti perché la facesse spegnere. Non sono cose che si chiedono a un ministro, per di più dell’Interno. Ma, date le circostanze, García Márquez si godette molto la scena».
Mario Baudino