Dario Di Vico, Corriere della Sera 12/7/2014, 12 luglio 2014
IL PARADOSSO DEL PAESE INDUSTRIALE CHE HA PERSO IL CONTROLLO DELLE SUE GRANDI IMPRESE
Negli scorsi giorni un gruppo cinese ha salvato un’azienda di compressori in amministrazione controllata, la Acc di Belluno. In parallelo sta andando avanti l’accordo che garantisce la continuità dell’Alitalia grazie all’ingresso nel capitale degli arabi di Etihad. Ieri gli americani della Whirlpool hanno annunciato l’acquisizione della quota di maggioranza della Indesit. Può sembrare una barzelletta dei tempi di Carosello con un cinese, un arabo e un americano che seppur a vario titolo si presentano in Italia a fare incetta di aziende ma in realtà è un flash che fotografa i nuovi assetti del nostro sistema produttivo e dei servizi. Tantissime cose stanno cambiando e sono l’effetto di un combinato disposto rappresentato dagli effetti (pesantissimi) della Grande Crisi, l’accelerazione dei processi di globalizzazione e l’avvento di un nuovo ciclo tecnologico. Ma se tutto attorno a noi ha il segno del mutamento (cosa cambia per i produttori di auto lo straordinario successo del car sharing?) dovremmo cambiare anche noi e cercare di evitare di accontentarci delle solite litanie. Dobbiamo elaborare il lutto e darci una strategia “altra” rispetto a quella romantica – e che tutti avremmo sicuramente desiderato – della crescita di grandi gruppi a conduzione italiana capaci di sfidare in tutti i settori il mercato globale.
La prima verità è che nella grande impresa non siamo stati capaci di implementare quelle strategie di specializzazione che invece nei settori del made in Italy fanno ancora le nostre fortune. Il caso degli elettrodomestici è davanti agli occhi di tutti noi. Per troppo tempo i produttori sono stati alla mercè della distribuzione che li ha di fatto obbligati a una competizione di prezzi rivelatasi perdente. Prodotti come le lavatrici e i frigoriferi nella maggior parte dei casi sono diventati commodity, oggetti indifferenziati e percepiti dal consumatore a basso valore aggiunto. Il risultato è stato che da una parte siamo stati chiamati a competere sul costo del lavoro con il distretto parallelo di Olawa in Polonia e dall’altra abbiamo dovuto cedere a chi, come gli americani della Whirlpool, è disposto a competere sui grandi volumi e trova il coraggio di opporsi ai grandi produttori asiatici, Samsung in testa. Il governo italiano in due riprese per evitare la caduta verticale del settore in Italia ha concluso accordi estremamente complessi nella loro formulazione con la stessa Indesit e con l’Electrolux ma il mercato sembra andare più veloce e con l’affare Merloni ha di nuovo cambiato le carte sul tavolo. Perché è evidente che, almeno in prima battuta, si potranno creare problemi di razionalizzazione tra i vari siti produttivi italiani di Whirlpool e di Indesit.
Gli americani sono in Italia da molti anni e hanno ereditato la nobile tradizione industriale dei Borghi e della loro mitica Ignis, sono interlocutori seri e quindi ci sarà modo e tempo di capire quanto l’Italia finirà per contare sulle loro strategie-mondo. I segnali che sono arrivati in questi mesi parlavano sempre di una riconferma di Comerio/Varese come accademia dell’elettrodomestico. La qualità della catena di fornitura italiana e la cultura industriale dei nostri stabilimenti è ancora sicuramente all’avanguardia e può essere quindi una leva competitiva decisiva proprio per riprendere il discorso sull’industria del bianco laddove, al bivio con l’innovazione, è rimasto interrotto o comunque incompiuto. Ma proprio seguendo la nuova vicenda Whirlpool probabilmente impareremo a ragionare su come un Paese-industrializzato-ma-con-poche-grandi-industrie sa rapportarsi con le multinazionali, costruisce schemi di relazione e di negoziato più maturi che superino il patriottismo economico ma siano capaci di salvaguardare la ricerca, la produzione di valore e il lavoro. Solo se saremo capaci di incamminarci su una strada diversa potremo evitare di essere preda di vivere l’arrivo di un cinese, di un arabo, di un americano e magari di un indiano per l’Ilva come chi assiste allo sfoglio di un carciofo. Per dirla con uno slogan dovremo essere capaci di chiedere più valore e al tempo stesso offrire più valore. Oggi non siamo ancora in grado.
Dario Di Vico