Claudio Magris, Corriere della Sera 12/7/2014, 12 luglio 2014
BUGIARDI E UN PO’ MATTI, I MIEI AMICI AL BAR
«Forse non si sbagliano quelli che pensano che i Bolognesi parlino la lingua più bella... Pare ragionevole che la loro lingua risulti dalla mescolanza degli opposti temperata in un’apprezzabile dolcezza...». Verso nessun’altra parlata italiana, Dante, nel De vulgari eloquentia , dimostra un’altrettanta calda simpatia; simpatia per quell’umanità impastata di laboriosità e piacere di vivere, amicizia, passione civile e canagliesca prontezza, quando è necessario, a non farsi fregare e anche a giocare qualche tiro un po’ forte.
La corda più appassionata dell’autobiografia di Pupi Avati è forse l’amicizia, un caldo e disincantato amore per la vita — per le persone care, ma anche per la sua ruota di fortuna e sfortuna, fiaschi e trionfi, valori profondi e buffe cantonate. Pure i grandi artisti, figure mitiche, sembrano gli amici al bar. È lo spirito che pervade tanti film della feconda e varia opera di Pupi Avati, dalla delicatezza de La seconda notte di nozze al sinistro incubo de La c asa dalle finestre che ridono , dalla beffa crudele de La rivincita di Natale , pur sempre intrisa di amicizia ancorché violata, all’amore sottomesso sino quasi all’indennità de Il papà di Giovanna a tanti altri. Questo senso fraterno e fraternamente truffaldino della vita è profondamente cattolico; un cattolicesimo affettuoso e ironico, alla Chesterton, pronto a ridere dell’imperfezione del creato ma prima ancora di se stesso, come quando Avati, ad esempio, racconta dei suoi insuccessi.
Tu confessi candidamente — gli dico incontrandolo a Roma — di essere un grande bugiardo e quasi te ne vanti, come ci si gloria, sotto sotto, di certi peccati non troppo sgradevoli. La bugia — lo dici tu stesso — è una dilatazione del reale; le storie che raccontiamo si arricchiscono di continuo mescolandosi alla vita di noi che le raccontiamo. S’identifica con l’arte, che è finzione, e nel tuo caso con la finzione per eccellenza, il cinema.
Avati — Nel nostro lessico familiare un bambino bugiardo era uno che inventava. Per inventare occorre immaginare, ma anche per creare occorre immaginare. Siamo quindi penetrati nel sacro territorio della creatività che si diparte sempre da una confutazione dell’esistente, da un suo liberatorio sconfinamento. Nell’oggi il male assoluto è il disincanto. Non si fantastica più singolarmente.
Credo invece che mentire a noi stessi sia terapeutico, specialmente nelle tante situazioni difficili in cui la tentazione di resa è forte, convincendoci che ad attenderci ci sia quel risarcimento che ognuno sa di meritare.
Dissuadere le persone dai loro sogni, costringerle a confrontarsi con i loro limiti è il peccato più grave che si possa commettere. Giudicare, asserire, sentenziare, impicciarsi degli altri in nome di quella verità espressa da chi la detiene abusivamente è una lucrosa e immorale professione.
Qualsiasi manifestazione creativa esige al contrario un salvacondotto perché si produca uno slancio illusorio, un’apertura al mondo.
Magris — L’affettuosa ironia con cui racconti di persone a te care e vicine o vicinissime o anche solo incontrate fugacemente è una forma autentica della carità. Ma vorrei chiederti — anche perché è un problema che sento spesso anch’io, nel mio scrivere — se non ti senti pure colpevole di svelare cose, situazioni, sentimenti che, portati a conoscenza di tutti, possono forse pure far soffrire le persone di cui si parla, che possono sentirsi derubate di un segreto, di qualcosa che sentivano esistere solo per loro.
Avati — Nel tuo lucidissimo Livelli di guardia ci offri l’esegesi di un post moderno che ci sfugge di mano a ogni fatale giro di boa. Il tuo sguardo è ampio e include molto del nostro presente. L’angolo della mia cinepresa è più stretto, soggettivo, incentrato su esseri umani anonimi destinati a non lasciare alcuna traccia del loro fuggevole passaggio. E tuttavia a loro volta emblematici. Dire di loro, nel bene e nel male, è probabilmente il solo modo che ho per trattenerli, perché non si perdano nella grande dimenticanza. A volte ho riaperto ferite che il tempo aveva rimarginato e ho capito di aver prodotto ulteriore sofferenza. Ultimamente con un racconto dal titolo Un matrimonio ho suscitato addirittura il risentimento di alcuni parenti strettissimi che hanno del tutto frainteso le mie intenzioni. D’altra parte i fatti e le persone esistono, come conferma il tuo amico Javier Marías, solo se c’è qualcuno che li ricorda e li racconta. Con le inevitabili conseguenze. A volte comunque accade anche il contrario, c’è chi si lamenta: «Ma come, hai raccontato tutti quanti e non ci sono mai io?». Impresa ardua accontentare tutti.
Magris — Tu hai scritto la sceneggiatura de Le 120 giornate di Sodoma e ciò può stupire, perché quel mondo sadiano ti è lontano. Mi sembri più vicino a Roth, che, decenni prima di Hannah Arendt, ha capito che il male è banale («Hitler, una banale Medusa») e che il gusto di trasgredire può essere balordo come gettare immondizie dal finestrino. In quel film, ha scritto acutamente Alessandro Carrera, Pasolini, nel suo profondo più profondo, si sente forse più vicino ai fascisti di Salò, ai torturatori, che ai «buoni» della Resistenza, proprio perché quelli sono i dannati, i disperati, i perdenti e dunque più autentici, più veri, per lui, delle persone perbene che combattono per la libertà e per la morale... Tutto ciò mi sembra assai lontano dalla tua epicità accogliente, in cui c’è affettuosamente posto pure per i mediocri, per gli imbroglioni, per chi si barcamena come può e dunque pure per quei borghesi che scandalizzavano Pasolini...
Avati — Ho scoperto il lato segreto di Claudio Magris attraverso i libri di Marisa Madieri. Leggendo alcune sue pagine rivelatrici mi si è disvelato il mood del vostro contesto familiare, permettendomi di stabilire con te questo solido approccio tutt’altro che intellettualistico. Così è avvenuto con Pasolini che ho frequentato per oltre tre mesi nel suo privato, architettando con lui e Sergio Citti le atrocità di Salò , contrappuntati dalla madre che gli chiedeva se preferisse per cena gli straccetti o la cotoletta. Quel Pasolini lì, che tra l’altro non aveva letto Le 120 giornate di Sodoma (il libro, allora all’indice, glielo procurai io acquistandolo in una bancarella di piazzale Esedra) è nel mio ricordo ancora nitido, un alternarsi dell’intellettuale rigoroso e assertivo che si è prefissato di andare con il suo film oltre il male assoluto e quell’essere timido, sorridente, timoroso di ferirmi nel correggere qualcosa che avevo scritto e che non lo convinceva. È naturalmente quest’ultimo il Pasolini che più mi è mancato negli anni che sarebbero venuti.
Magris — Come è ovvio nella vita di un regista di celebri e amati film, il libro è una galleria anche di figure universalmente note di quell’Olimpo che è il mondo del cinema e dello spettacolo. Ma in questa frequentazione prevalente di una sola tribù, non c’è il rischio di un’endogamia asfittica? Ho sempre trovato soffocante frequentare sempre e solo il proprio ambiente; non potrei vivere in un campus universitario soltanto con studenti e colleghi né solo fra scrittori e intellettuali o gente dello spettacolo. Provo affetto, interesse e ammirazione per tanti di loro, che ho la fortuna di frequentare, ma non potrebbero essere gli unici; si prova certo amore e interesse per la propria famiglia, ma non si può vivere solo con e fra i propri famigliari. Forse anche questo è un sentimento cattolico, magari pure bolognese, oltre che triestino...
Avati — Hai ragione, ma io da diversi anni mi tengo alla larga dal mio ambito professionale. D’altra parte la cosiddetta Terrazza Romana non esiste più o se esiste sopravvive malinconicamente a se stessa. Le sole persone che mi aiutino a tenere la mente in uno stato di perenne ricettività, non sono gli intellettuali, noiosissimi nella loro supponenza, ma i malati di mente, gli psicopatici.
Chi fa il mio mestiere è come carta moschicida per queste persone che vivono nella convinzione che con chi fa il cinema ci siano assonanze profondissime. E forse non hanno torto. È l’illogicità dei loro sragionamenti a sedurmi. È grazie allo stupore di aver trovato qualcuno disposto ad ascoltarli che ho ottenuto la loro fiducia. Intrattengo così una fitta, amichevole, corrispondenza con individui afflitti dalle più disparate patologie dell’intelligenza. Tutti mutevoli, a volte indisponenti, a volte affettuosissimi, forse a volte pericolosi, ma capaci di frequentare ancora il meraviglioso, l’impensabile.
Molti dei miei racconti cinematografici li debbo a questo irragionevole sodalizio.