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 2014  luglio 12 Sabato calendario

SERPICO: «IO, I CORROTTI E QUELLA VOGLIA DI TORNARE IN ITALIA»

Ci vogliono un paio d’ore di macchina per raggiungere Hudson River Town, un grazioso villaggio a nord della Grande Mela. Il paesaggio è rigoglioso. Tanto verde. Prati. Boschi. E silenzio. La frenesia e il chiasso di Manhattan sono svaniti. È qui, parallelo al grande fiume, un po’ fuori dal mondo, che vive Frank Serpico, il poliziotto che denunciò la corruzione fra i suoi colleghi e che è diventato il simbolo della legalità nonché lo sbirro più famoso al mondo anche per via del film sulla sua vita interpretato da Al Pacino.
Quando il gps segnala la destinazione finale troviamo una fattoria lontana e una macchina della polizia federale parcheggiata. Ci indicano la via per trovare Frank. Tagliamo in due l’ennesimo bosco e spuntiamo nel villaggio di Hawthorne Valley dove Serpico, ci dice una specie di cow boy del terzo millennio, «gestisce il teatro della scuola». Ci saranno una quindicina di case, le tipiche yankees di campagna. Tutte legno, il porticato con la sedia a dondolo, un piano-terra e una stanza da letto sopra, comignolo e, fuori, accatastata, la legna per l’inverno che qui, mi dicono, picchia duro.
È una giornata bellissima. Sole forte. Cielo limpido. L’appuntamento è di fianco ad un supermercato perché Serpico non riceve nessuno a casa sua. E ogni appuntamento ha un diverso indirizzo. Eredità di una professione dalla quale, mi dirà poi, non è mai uscito. Ci sediamo ad un tavolo di legno sotto un gazebo fuori dell’Hawthorne Valley Farm Store e sorridente, da dietro, all’improvviso, si materializza il Mito.
«Vi ho sorpreso?»
La voce è forte e colpisce perché si accompagna a un fisico fin troppo magro. Capelli arruffati. Barba incolta. Una camiciola jeans a maniche corte. Foulard blu con piccoli disegni bianchi. Occhiali da sole e al collo una lente d’ingrandimento con una cornice d’argento. «L’ho comprata da un tabaccaio vicino San Pietro a Roma. E non me ne separo mai».
Frank si siede, posa un libro (è «Mistero Buffo» di Dario Fo) e un piccolo dizionario tascabile italiano-inglese («mi serve per rispolverare la vecchia lingua») che non aprirà mai tanto è scorrevole il suo linguaggio con una chiara inflessione napoletana.È’ un tipo diretto, senza fronzoli. Il padre (ne parla molto) nacque a Marigliano, vicino Napoli. Lui è nato a Brooklyn ed è stato battezzato con uno dei nomi più italiani che ci siano, Francesco. «Le suore volevano che venissi battezzato col nome di Francis. Mio padre si impuntò. Questo figlio mio ha sangue italiano e deve avere nome italiano. Io, caro amico, mi chiamo e sono Francesco Serpico, Quando mi chiamano Frank non mi dispiace. Gli americani, lo sa, accorciano tutto. Ma io sono Francesco Serpico. Piacere»
Allora Francesco, cominciamo?
«Cominciamo? Per favore mi parli in direzione dell’orecchio destro. Lo sparo a sinistra mi ha spezzato il nervo e lì ci sento assai meno».
Partiamo dalle sue radici italiane a cui tiene molto, ci pare...
«Nel mio sangue scorre sangue italiano. Uno dei momenti più belli della mia vita è stato quando ho avuto il passaporto italiano, qualche anno fa. Me lo consegnò questo collega qui, italiano, l’ispettore capo della Polizia Sergio Cirelli, che è diventato mio grande amico. È riuscito a concretizzare un sogno antico. Ora con quel documento sono completo. Rivolevo indietro il mio nome, la mia cultura che è quella che mi hanno dato i miei genitori. Le dico di più. Quando sono tornato a casa ho pianto. Come anche quando ho letto il certificato di nascita di mio padre che sempre Cirelli ottenne e mi portò».
Cosa è per lei l’Italia?
«È il Paese dove voglio tornare. Voglio morire lì, da dove partì mio padre. Seguo su internet la stampa italiana e so perfettamente bene che l’Italia ha tanti problemi: disoccupazione, droga, criminalità, corruzione. So che la mia scelta non è per andare a star meglio dal punto di vista materiale. Qui si sta bene, non mi manca niente. Adoro coltivare le mie insalate, i miei pomodori, la mia frutta. Mi piace ancora (ma prima mi piaceva di più) allevare le mie pecore, le mie galline, le mie vacche. Qui ho tanti amici che mi vogliono bene. Ma più di ogni altra cosa sento da parecchio tempo una gran voglia d’Italia. La mattina, quando mi alzo, la prima cosa che mi viene di fare, mentre metto su il caffè, è cantare. G uarda ’o mare quant’è bello, spira tanto sentimento…».
Cos’altro rappresenta l’Italia
«Ovviamente non è solo il Paese dove si mangia meglio al mondo, io ho voglia d’Italia perché, credo, è un Paese dove ancora si può vivere in una dimensione umana. Qui per cercare una dimensione umana sono dovuto scappare dalla metropoli. In Italia ci sono ancora i valori di una civiltà che è nata dal Cristianesimo. E di quelli che c’è bisogno. Vede, la mia vita è stata una lotta continua contro l’arroganza del potere. Sa quando ho cominciato? Tanti anni fa. Mio padre faceva il lustrascarpe. Nella bottega aveva tre sedie. Eravamo lui e io. Allora avevo una decina d’anni. Un giorno entra un poliziotto. Era grosso e alto. Si siede e tocca a me lucidargli le scarpe perché mio padre aveva un altro cliente. Ce la metto tutta. Voglio fare bella figura con un uomo in divisa. Strofino, ingrasso, lucido come meglio non avrei mai potuto. Quando finisco, il poliziotto si alza e se ne va. Senza pagare. Senza dire grazie. E senza neanche salutare. Io ci rimango malissimo. Trattengo a stento le lacrime e mio padre corre a consolarmi dicendomi: vedrai che prima o poi gli daremo una lezione. Il giorno dopo, puntuale, eccolo che torna. Mio padre esce dal negozio. Gli si para davanti. Io gli sto a fianco. E gli chiede: è venuto per farsi pulire le scarpe? Certo. Mio padre gli allunga la mano: qua i soldi perchè da oggi si paga anticipato. Il poliziotto sbofonchiò qualcosa che non capimmo, girò i tacchi e se ne andò. Il commento di mio padre fu: abbiamo perso un cliente ma abbiamo conquistato la dignità. Non l’ho mai dimenticato. Fu una lezione di vita dalla quale la mia esistenza è stata segnata per sempre».
Perché?
«Perché l’arroganza del potere è una dei mali più profondi e più gravi del nostro tempo. E’ vero, l’arroganza del potere c’è sempre stata ma come si manifesta oggi, in mezzo a tanta retorica, no, non c’è mai stata. Prenda Clinton, probabilmente il peggior presidente degli Stati Uniti che ci sia mai stato. Ha messo a tacere in modo vergognoso l’affaire-Levinski e tutti gli altri che hanno accompagnato le sue due Presidenze. Altro che il vostro/nostro Berlusconi! Clinton, in quanto Presidente del più importante Paese del mondo, doveva essere al di sopra di ogni, pur minimo, sospetto. E invece ha calpestato le leggi, i codici, i Tribunali. Su Clinton le voglio dire un’altra cosa. Joe Tramboli è un nome che forse non vidrà niente. In realtà è agente, di origine italiana anche lui, che svelò la corruzione di alcuni suoi colleghi e li arrestò. Oggi è caduto rovinosamente nel dimenticatoio e fu proprio Clinton, che interpellai nel ’94 per chiedergli di conferire a Tramboli la medaglia del Presidente (gli chiesi anche di istituti una commissione di vigilanza sui corrotti in polizia) a non fare nulla.
E nel dettaglio cosa le rispose Clinton?
Ecco qua. «Caro Frank, condivido le sue preoccupazioni e apprezzo molto i suoi consigli». Aggiunse anche che aveva segnalato la candidatura del poliziotto in questione asi suoi collaboratori. Ma nulla venne fatto. Una vergogna, proprio come tutte le altre cose di Clinton. Il quale ha ancora la faccia tosta di andare in giro per tenere conferenze, peraltro assai ben pagate. Davvero una vergogna».
E degli altri Presidenti americani che pensa?
«Che nessuno ha avuto il coraggio di chiedere scusa alla Nazione per i morti nelle guerre sbagliate che sono state dichiarate e combattute con un dispendio di risorse economiche da far paura. I cui risultati peraltro sono semplicemente disastrosi. A che è servito lottare in Afghanistan se i talebani sono a pochi metri dal potere? Ed in Iraq? Hanno buttato giù Saddam Hussein. Non era certamente un modello di democrazia. Ma, uscito violentemente di scena lui, cosa ne è di quel Paese? Oggi c’è il Califfato di Al-Baghdadi che arriva fino in Siria e minaccia di arrivare in Libano, cioè al Mediterraneo. Che bel risultato! E l’aiuto ai ribelli anti-Assad in Siria? E’ solo servito ad aiutare gli eredi di Al Qaeda di cui è stato giustiziato il capo. Insomma, contraddizioni strategiche e diplomatiche da un lato e migliaia di morti dall’altro. Chi ne è responsabile? Chi ne chiede scusa al popolo americano?».
È un fiume in piena, Serpico. Si accalora. Si agita. Muove le mani come vuole il cliché napoletano più classico.
«Se io fossi il Capo del Governo in un Paese come l’Italia, cosa farei? Prima di tutto parlerei con le madri. Ecco a Matteo Renzi chiederei di parlare alle mamme, alle famiglie».
Che c’entrano le madri e le famiglie?
«C’entrano. Perché il problema numero uno è l’educazione di un popolo, e nessuno ci pensa più all’educazione. Non nel senso della buona creanza (dice proprio così, buona creanza, ndr). Ma nel senso dei valori di fondo. Senza lealtà, trasparenza, senso di responsabilità, culto dell’onestà intellettuale e morale allo stesso tempo, umiltà, rispetto per gli altri, senza questi valori si va solo a sbattere contro il muro. Si sprofonda nel cinismo di Stato, nei compromessi più ignobili, nelle bugie pubbliche. Si offrono modelli di vita assurdi. A New York c’è un consumismo sfrenato, che esagerazioni inutili, che spese folli, folli per la entità del danaro che esce e folli per gli oggetti, quasi sempre inutili, che si acquistano. Ma si può andare avanti in questo modo? Il consumismo è una delle più grandi trappole del mondo moderno. E, se fossi Renzi, o chiunque a capo del governo italiano, farei anche un’altra cosa»
Dica.
«Mi batterei affinché fosse garantita la certezza della pena che in Italia oggi è un’utopia. Chi sbaglia deve pagare. Punto».
Lei è diventato un eroe in tutto il mondo, il suo nome è un simbolo. Come vive questa notorietà?
«Gli Stati Uniti mi hanno dato, nello stesso tempo, grandi soddisfazioni ed enormi amarezze. Come ho già ricordato in altre occasioni, il Museo della Polizia di New York City non ha accettato di esporre il mio distintivo. Che cosa dimostra questo? Che non molto è cambiato in tutti questi anni. Basta pensare che, grazie anche al film sulla mia storia, sono conosciuto in tutto il mondo. Mi hanno riferito che anche gli agenti e i carabinieri italiani sanno chi sono e quello che ho fatto. Questo mi riempie d’orgoglio come mi riempie di orgoglio sapere che la polizia italiana, pur impoverita dai risparmi imposti dal Governo, ottiene grandi risultati e di recente è riuscita a fare una spettacolare operazione antimafia in Sicilia. Bravi davvero come erano bravi ai tempi dei mafiosi di qua e di là dall’Oceano. Il New York Police Department cerca invece di cancellare la mia figura dalla storia di questo Paese e dalla storia della polizia americana».
Possibile che non abbia mai avuto un segno di solidarietà?
«Per quanto riguarda gli altri poliziotti è così. Paradossalmente sono stato più rispettato dai delinquenti, dai mafiosi, che dai miei colleghi. Una volta un mafioso mi disse: non abbiamo niente contro di te, non sei una faccia di merda come gli altri. Eppure ricevo molte di lettere nelle quali mi si chiede il mio parere su argomenti vari».
E che cosa si sente di dire a chi si trova in una situazione simile a quella che lei ha vissuto tanto tenpo fa?
«Di battersi per la verità, non avere paura, non piegarsi mai. Se poi vuole andare oltre deve essere certo di sapere come stanno davvero le cose, nel dettaglio. Non può essere approssimativo e non deve generalizzare mai. Non si deve fidare di nessuno e non deve confidarsi con persone di cui non si è più che sicuro. E infine, gli direi di raccogliere più prove possibili e di registrare tutto. La ricerca della verità è dura, difficile, dolorosa ma alla fine paga».
Chi considera i suoi eredi oggi?
«Ci sono tanti poliziotti coraggiosi e onesti nel mondo. Ma se vogliamo fare un paragone originale, penso che Assange, Snowden che qualche tempo fa definii i Serpico dell’era contemporanea, della Rete Mondiale. È anche grazie alle loro rivelazioni che oggi la Germania può interrompere l’offesa di essere spiata ai massimi livelli da un Governo che si dichiara alleato. Cosa c’è di più fondamentale che la trasparenza? Se ci fosse davvero e ovunque la trasparenza i cittadini smetterebbero di avere paura».
Paura di cosa, di chi?
«Paura dei loro capi. La libertà è un concetto molto abusato, ma se ne parla spesso a sporposito. Che cos’è davvero la libertà? Qui in America c’è la libertà di scegliere una scarpa con tacco da dodici centimetri piuttosto che un’altra, pagandole entrambe cifre assurde. Ma non c’è la libertà di pensarla davvero col proprio cervello».
Sulla vita di Francesco Serpico, Peter Maas ha scritto «Serpico: The Classic Story of the Cop Who Couldn’t Be Bought». Nel 1973 Sidney Lumet ha diretto «Serpico» interpretato da Al Pacino. Al libro di Maas è stata ispirata la serie televisiva «Serpico» trasmessa dal 1976 al 1977 dalla NBC. Che effetto le ha fatto essere diventato famoso?
«Quel film l’ho rivisto solo trent’anni dopo che era uscito. Intanto, ci sono alcuni dettagli non esatti nella ricostruzione del momento in cui mi hanno sparato. Non me la sentivo ancora di rivivere quel periodo».
Che resterà di Francesco Serpico?
«Vorrei che si ricordasse una cosa che può sembrare banale, ma per me non lo è: io sono un essere umano. Negli Stati Uniti moltissimi pensano che Serpico sia una fiction ben riuscita. Per altri è una leggenda vivente. Per voi italiani, spero, Serpico deve essere un connazionale onesto che sta per tornare a casa perché è nella terra dei suoi avi e dei suoi genitori che un giorno vorrà riposare».