Roberto Toscano, La Stampa 12/7/2014, 12 luglio 2014
LE DUE MOSSE INCOMPRENSIBILI
Ancora una volta, come avvenuto periodicamente in passato, Gaza è bersaglio di bombardamenti israeliani.
Sarà anche vero che, come sostengono gli israeliani, gli obiettivi sono i dirigenti politico-militari di Hamas, i depositi di armi e i luoghi da cui vengono lanciati i missili verso Israele, ma la realtà – che si riflette nello stillicidio di vittime civili – è che in una zona fra le più densamente popolate del mondo è del tutto illusorio immaginare che si possano effettuare attacchi, come si dice con un’espressione sinistra, chirurgici. E le cose potrebbero ancora peggiorare se i reparti militari e i mezzi corazzati che Israele ha ammassato alla frontiera di Gaza dovessero dare il via ad un attacco via terra.
Sembra necessario chiedersi il perché di questa crisi, che si viene ad aggiungere ad un quadro già pesantemente destabilizzato a livello regionale.
Anche se quegli atroci episodi hanno scavato ulteriormente il fossato di ostilità fra israeliani e palestinesi, l’origine della crisi non va ricercata nell’orrore dell’assassinio dei tre adolescenti israeliani seguito da quello dell’uccisione del ragazzo palestinese. Paradossalmente la barbarie di questi crimini incrociati ha fatto riflettere un po’ tutti, mentre il comportamento delle famiglie delle vittime ha spostato il discorso dalla dimensione politica a quella personale ed umana.
Ma allora? Cos’è cambiato rispetto ai mesi scorsi? E soprattutto: cos’hanno in mente non gli israeliani e i palestinesi – collettività umane e politiche tutt’altro che omogenee – ma gli attori politici: da una parte Netanyahu e dall’altra la dirigenza di Hamas?
Che senso ha per Hamas lanciare su Israele non solo razzi rudimentali, come spesso accadeva in passato, ma missili di media gittata capaci di colpire quasi l’intero territorio di Israele? L’impiego di mezzi militari ha un senso se può puntare alla sconfitta del nemico, ma è da escludere che i dirigenti di Hamas credano di poter sconfiggere le potenti forze armate israeliane. Vi è anche un altro uso della violenza militare, quello tendente non a sconfiggere l’avversario, ma a piegarne la volontà. Una logica di tipo terrorista, che – va detto - può essere messa in atto anche dagli Stati (pensiamo ai bombardamenti sui civili da Guernica a Londra, da Dresda a Hiroshima). Ma anche qui resta un interrogativo di fondo: davvero qualcuno può pensare, dopo tutti questi anni di guerre e di attacchi, che gli israeliani si lascino intimidire da quei missili tirati a casaccio?
E che senso può avere la rottura da parte di Hamas di una linea di relativa moderazione – una rottura che mette una prematura pietra tombale sul suo recente patto con Abu Mazen?
Difficile quindi capire il perché del comportamento di Hamas, a meno di non voler prendere in considerazione un’ipotesi apparentemente azzardata, ma che non ci sentiremmo di escludere. Può darsi che al suo interno cominci a farsi sentire l’effetto di quanto sta accadendo tra Siria e Iraq, con la proclamazione dello Stato Islamico e del Califfato. Certamente c’è una componente retorica, addirittura teatrale in questa riesumazione delle antiche glorie dell’Islam. Ma i simboli a volte hanno la capacità di produrre effetti reali, scatenando potenti ondate di mobilitazione politica. E non dobbiamo nemmeno dimenticare che Hamas è, a differenza di Hezbollah, un movimento sunnita, e come tale potrebbe, almeno in certe sue componenti, risultare sensibile agli appelli di Abu Bakr al Baghdadi, l’improbabile Califfo, e soprattutto alle prospettive che si aprono con l’offensiva dei jihadisti in Iraq, un’offensiva giunta ormai molto vicina al confine della Giordania.
Se risulta problematico interpretare il comportamento di Hamas, non molto più facile è comprendere quello del governo israeliano, e in particolare del primo ministro Netanyahu. Il punto non è la risposta al lancio di missili, una legittima difesa cui possiamo soltanto obiettare per il modo in cui viene effettuata e le pesanti perdite civili: viene in mente il concetto di «eccesso di legittima difesa» che esiste nel diritto penale.
Rimane la questione del senso, del disegno politico in cui dovrebbe inserirsi qualsiasi impiego della forza militare. Nessuno pensa che sia fattibile una permanente occupazione israeliana di Gaza, che – isolata, priva di orizzonte economico per la sua popolazione – resterà invece un focolaio di rabbia ed estremismo politico. Un estremismo che – ancora poco tempo fa minoritario rispetto alla linea dell’Autorità Palestinese – è cresciuto e si è radicato non per ragioni ideologiche, e ancor meno religiose, ma per la totale mancanza di prospettive di una soluzione negoziale. Basti citare l’aspetto più macroscopico, e in assoluto meno giustificabile, della politica del governo israeliano: i settlements, quegli insediamenti di coloni che rendono sempre più irrealizzabile l’ipotesi di uno Stato palestinese.
Possiamo prevedere che i lanci di missili prima o poi finiranno, e che si tornerà a quello che si fa molta fatica a definire come normalità. Paradossalmente l’ipotesi che anche questa crisi non farà che confermare il tragico status quo risulta la più ottimista. Le cose potrebbero andare anche peggio. Qualcuno ha scritto in questi giorni che il fatto che i missili di più lunga gittata siano di fabbricazione, e di origine, iraniana potrebbe rafforzare i fautori di un attacco israeliano all’Iran. Prima di dire che si tratta di fantapolitica dovremmo tenere presente che ormai in tutto il Medio Oriente (e anche oltre, dalla Nigeria all’Afghanistan) il sistema internazionale sembra in fase di avanzata e traumatica decomposizione, senza che emerga la volontà e la capacità dei principali soggetti internazionali – gli Stati Uniti, ma non solo loro – di porre rimedio a questo sempre più pericoloso e sempre meno governabile processo.
Verrebbe da ripetere, a proposito della comunità internazionale, la risposta che diede Gandhi quando gli chiesero cosa pensasse della civiltà occidentale: «Sarebbe un’ottima idea».