Fabrizio Salvio, SportWeek 12/7/2014, 12 luglio 2014
IL PORTIERE CHE NEMMENO VOLEVA GIOCARE
Seduto su uno sgabello, testa tra le mani, Giampiero Combi piangeva lacrime di paura: quella di non riuscire a prepararsi in tempo per un Mondiale che non avrebbe dovuto essere suo e che lo era improvvisamente e inaspettatamente diventato. Mancavano 12 giorni all’inizio e Carlo Ceresoli, il portiere titolare della Nazionale, si era rotto l’omero in allenamento. Un altro si sarebbe fregato le mani di nascosto dispensando in pubblico parole di circostanza per lo sfortunato collega. Combi no: Combi era sinceramente dispiaciuto per il compagno e preoccupato per se stesso. Avrebbe già lasciato il calcio, a soli 31 anni, carico com’era di infortuni e scudetti, se Vittorio Pozzo, commissario tecnico dell’Italia, non lo avesse convinto a rendersi disponibile per il Mondiale nel ruolo di balia del più giovane Ceresoli.
Invece, adesso toccava a lui difendere la porta nel torneo che stava per giocarsi in casa nostra e che perciò non poteva e non doveva sfuggirci: soprattutto per ragioni legate alla propaganda di regime. Era il 1934, il fascismo teneva in pugno il Paese da 12 anni e Mussolini aveva appena incontrato per la prima volta Hitler, a Venezia. Già divorato dai suoi sogni di grandezza, il Duce aveva bisogno di rafforzare in qualunque modo la sua immagine di leader. «Era il Mondiale fascista. Il Mondiale da vincere», dirà Combi anni dopo, e in quel Mondiale lui veniva catapultato senza certezze, assillato anzi da mille dubbi.
Lui che, pur di imporsi nella Juventus, la squadra in cui giocò per tutta la carriera (160 partite di campionato e 5 scudetti), all’inizio si divideva tra il ruolo di portiere e di ala sinistra e poi, per 8 anni, non prese lo stipendio «e neppure lo chiesi». Lui che per i bianconeri giocò una partita con tre costale rotte, «ogni tanto svenivo e il massaggiatore mi passava una spugna imbevuta di acqua gelida per tirarmi su». Lui che in campo vestiva in maniera impeccabile come fuori: maglioni bianchi o neri a collo alto, pantaloncini di fustagno confezionati da un sarto di cui non volle mai rivelare il nome. Lui, Combi, che aveva riconquistato la Nazionale un anno esatto dopo l’esordio di Budapest (6 aprile 1924) in cui per sette volte aveva raccolto la palla in fondo alla rete: anche nell’occasione del suo riscatto i gol furono 7, ma segnati nella porta avversaria, quella della Francia. Al Mondiale Combi collezionò miracoli contro Stati Uniti, Spagna e Austria, fino al capolavoro nella finale del 10 giugno contro la Cecoslovacchia, giocata allo stadio Nazionale davanti a 60 mila persone e al Duce scortato dai gerarchi: sull’1-1, quando mancava niente alla fine dei tempi regolamentari, tolse dal “sette” un tiro di Nejedly. L’Italia aveva pareggiato con Orsi, a dieci minuti dal 90’, il gol segnato da Puc al 25’ del secondo tempo, siglando il definitivo 2-1 con Schiavio dopo 5 minuti del primo tempo supplementare. Poi, Combi mise finalmente «in guardaroba le scarpe a bulloni. Ci tenevo a finire in bellezza 15 anni di carriera juventina e 10 in azzurro, con 47 presenze. Volevo sfuggire alla sorte di quei vecchi attori e cantanti che ogni anno si concedono la serata d’addio». Altri tempi. E altri uomini.