Roberto Mania, la Repubblica 12/7/2014, 12 luglio 2014
ROMA . Per fare i capitalisti bisogna avere i capitali. Gli italiani non hanno più i capitali e non possono più fare i capitalisti
ROMA . Per fare i capitalisti bisogna avere i capitali. Gli italiani non hanno più i capitali e non possono più fare i capitalisti. Così scompare l’imprenditoria italiana, più che l’industria tricolore. Perché l’Indesit resterà a Fabriano anche se a comandare non sarà più la famiglia Merloni ma i manager della multinazionale a stelle e strisce della Whirpool che in pancia ha già l’italico marchio dell’Ignis fondata nel 1946 dal “cumenda” Giovanni Borghi. Storie di altri tempi, dell’epopea del capitalismo familiare italiano che è crollato alla prova con il capitalismo globalizzato. Di quel capitalismo che negli anni Ottanta conobbe la stagione del riscatto dei piccoli e medi imprenditori. Ne fu il simbolo proprio Vittorio Merloni che conquistò il vertice di Confindustria dopo le presidenze di Gianni Agnelli e Guido Carli. Quella storia è finita. Dice Giuseppe Berta, studioso dell’industria all’Università Bocconi di Milano: «Il nostro Paese non ha saputo attrarre investimenti su attività proprie, ora li attrae cedendo. Ma questa è anche l’ultima possibilità che abbiamo per mantenere un presidio manifatturiero ». O gli stranieri o la morte, dunque. I soldi stranieri (“pecunia non olet”, si sa) scalzano le traballanti proprietà italiane. Ma le fabbriche e il lavoro, in genere, restano. È già successo con il Nuovo Pignone comprato dagli americani della General Electric, con Valentino che appartiene a un emiro del Qatar, con la Ducati che fa parte del gruppo tedesco Volkswagen, dei Baci Perugina marchio della multinazionale svizzera Nestlé mentre i cioccolatini Pernigotti sono dei turchi di Toksoz. Parmalat è francese e Loro Piana pure. Se l’è presa il colosso del lusso Lvmh che controlla anche Emilio Pucci, Acqua di Parma e Fendi. L’Alitalia sarà araba, eppure l’armata dei “volenterosi” convocati da Silvio Berlusconi una chance per dimostrare di essere imprenditori l’aveva avuta a sappiamo come l’ha sprecata pensando ad altro. Nemmeno la Fiat è più italiana, è diventata apolide, ha cambiato nome (Fca) dopo la fusione con l’americana Chrysler, è una società di diritto olandese che paga le tasse in Gran Bretagna ed è quotata a New York. I capitalisti italiani sono anonimi, senza blasone. Basta assistere ad una convention di Confindustria per capirlo. Gli Agnelli, dopo la morte dell’Avvocato e del fratello Umberto, è come se non ci fossero più: Sergio Marchionne è la Fca, non gli Elkann. Pirelli è una public company con i russi di Rosneft destinati ad avere un ruolo di primissimo piano. I Benetton si sono rifugiati nelle concessioni pubbliche decennali dai rendimenti garantiti. Capitalismo? I vari Arvedi e Marcegaglia aspettano le mosse del gigante indiano di Arcelor-Mittal per provare a mettere anche le loro manine sull’Ilva dei Riva, padroni di un’altra epoca. Bene che vada i siderurgici italiani faranno da comprimari. Perché i soldi ce l’hanno gli altri. Come i cinesi di Shanghai Electric che per 400 milioni si sono comprati il 40 per cento di Ansaldo Energia. E per Ansaldo Breda e Ansaldo Sts ci sono gli interessamenti dei francesi di Thales e dei cinesi di China Cnr. E cinese e anche Krizia. Hanno respinto gli attacchi della Nestlé i Ferrero. Ma per quanto ancora la proprietà della Nutella rimarrà italiana? Vedremo. C’è ancora Luxottica di Leonardo Del Vecchio che unico nell’establishment, seduto su una montagna di euro, ha potuto permettersi, dopo le ultime elezioni, di non chiudere provocatoriamente la porta all’ipotesi di un governo-Grillo. La verità è che diventare stranieri non fa affatto male ai brand del made in Italy. Una ricerca di Prometeia, commissionata dal ministero dello Sviluppo economico, dimostra che le 500 aziende italiane finite in mano a gruppi stranieri negli ultimi dieci anni hanno aumentato il fatturato (+2,8 per cento), la produttività (+1,4 per cento) e anche l’occupazione (+2 per cento). «Si tratta di numeri assolutamente non sorprendenti», sostiene Carlo Calenda, vice ministro dello Sviluppo con delega alla internazionalizzazione. «I Paesi che crescono di più, che hanno minore disoccupazione, che riescono a sfruttare le occasioni presenti nell’economia globale — spiega — sono anche quelli in cui maggiori sono gli investimenti esteri. Ci sono tanti tipi di investimenti stranieri, tra cui l’acquisizione di imprese è quello prevalente nelle economie mature. L’Italia negli ultimi cinque anni, purtroppo, è stata fanalino di coda anche in questo campo: i flussi di ingresso sono stati pari a solo il 3,8 per cento del Pil, rispetto al 5,4 per cento della Germania e al 4,8 per cento della Francia. La mancanza di investimenti esteri è una delle cause dirette della crisi economica». Ma è con la mancanza di nuovi capitalisti che dobbiamo cominciare a fare i conti. Serve una nuova cultura imprenditoriale che si misceli con quella degli altri Paesi, che accetti i manager e li scelga non per fedeltà (come dimostra una recente ricerca della Fondazione Debenedetti) ma per capacità, che si liberi dalla dipendenza dalle banche, che accetti i passaggi generazionali solo quando gli eredi lo meritano, che sappia investire in innovazione e in formazione. A quando un mea culpa di quel che fu il capitalismo italiano?