Sergio Romano, Corriere della Sera 12/7/2014, 12 luglio 2014
L’ULTIMA CRISI PALESTINESE. I FALCHI ALLEATI CONTRO LA PACE
L’annosa, drammatica situazione israelo-palestinese sembra non poter trovare soluzioni nonostante gli interventi del Papa, del presidente Usa e di altre importanti autorità.
Mi domando: come può un Paese apparentemente così povero e privo di mezzi come è quello palestinese investire tanti soldi in armamenti?
E chi fornisce tali armamenti? Attraverso
quali canali? Forse, se si riuscisse a tagliare gli approvvigionamenti economici e di armamenti
di Hamas la situazione potrebbe facilmente risolversi.
Erminio Giavini
giavini@alice.it
Caro Giavini,
Non credo che una tale misura basterebbe a risolvere la crisi palestinese. Quando gli algerini insorsero contro la Francia nel 1954, il governo di Parigi e i suoi servizi d’intelligence cercarono di isolare l’Algeria dal resto del mondo, ma non riuscirono a impedire che il Fronte di liberazione nazionale ricevesse armi e munizioni da Paesi amici o da chiunque avesse interesse a soffiare sul fuoco. Finché la maggioranza dei palestinesi si riterrà vittima di una ingiustizia, le formazioni combattenti della resistenza continueranno a disporre di armi. La crisi palestinese non si risolve con prove di forza, che si sono già rivelate in passato inconcludenti e dannose. La soluzione non può che essere un compromesso tra le posizioni estreme di ciascuna delle due parti.
Sappiamo che questo è particolarmente difficile quando entrambi i contendenti hanno tra le loro file gruppi radicali che non vogliono fare concessioni e sono pronti a sabotare qualsiasi tentativo di pace. Forse l’aspetto più inquietante di quest’ultima crisi è la soddisfazione con cui è percepita dagli estremisti dei due campi. Sul versante palestinese piace a tutti coloro che vogliono affondare la ritrovata unità fra le due famiglie della politica palestinese: Al Fatah e Hamas. Sul versante israeliano piace a tutti coloro che hanno lo stesso obbiettivo e vogliono soprattutto sabotare la prospettiva di due Stati destinati a convivere entro i confini della Palestina mandataria (quella amministrata dalla Gran Bretagna sino al 1948). Lo hanno fatto per molto tempo ostacolando la mediazione del segretario di Stato americano sino al suo fallimento e soprattutto servendosi del fatto compiuto degli insediamenti coloniali con cui il futuro Stato palestinese è stato progressivamente rimpicciolito. Lo fanno ora incitando il governo ad agire militarmente contro la striscia di Gaza. Non so se Benjamin Netanyahu condivida questa linea o debba accettarla per non pregiudicare l’unità del suo governo, dove i falchi sono numerosi. Ma la distinzione, tutto sommato, non ha grande importanza. Finché il governo non rinuncerà alla politica degli insediamenti e a rappresaglie che puniscono, in ultima analisi, la popolazione di Gaza, non vi sarà pace in Palestina.
Per alcuni osservatori particolarmente attenti Israele deve ripensare se stesso e il proprio futuro. In una intervista apparsa ora sul blog dell’Ispi (http://www.ispionline.it/it/intervista/israele-crisi-didentita), Vittorio Dan Segre descrive la situazione attuale come una terza intifada che «non è combattuta sul terreno, ma sullo spazio politico dell’immagine. E qui la debolezza d’Israele è totale. Il Paese deve ripensare la sua capacità di presentare i propri diritti e doveri, ma questa impellenza divide i partiti, incapaci di dire che cosa è realmente Israele. Certamente bisogna “tenere duro” sino al 2016 quando vi saranno nuove elezioni e si spera possa delinearsi un quadro politico che favorisca una maggiore chiarezza su questo fondamentale aspetto».