Giacomo Amadori, Libero 12/7/2014, 12 luglio 2014
IL LEADER DEI NUOVI BR IN RADIO A FAR L’APOLOGIA DELLA LOTTA ARMATA
Per Torino si aggira un fantasma. Quello della lotta di classe, possibilmente armata. Ha il volto baffuto di un “militante rivoluzionario” che per sette anni è rimasto chiuso nel carcere di Catanzaro con l’accusa di essere stato l’ideologo del Partito comunista politico militare, il Pcp-m. Le Digos di Milano, Torino e Padova nel 2007, coordinate dalla procura di Milano, smantellarono l’organizzazione che aveva l’ambizione di prendere il testimone della cosiddetta Seconda posizione delle Brigate rosse, dopo la sconfitta del Partito comunista combattente resuscitato da Nadia Desdemona Lioce e compagni. Il Pcp-m aveva tre cellule principali, una rivista clandestina (Aurora), un arsenale e obiettivi ambiziosi. Per esempio i suoi militanti, prima di essere “disarticolati”, stavano organizzando un attentato alla redazione di Libero e avevano messo nel mirino il giuslavorista Pietro Ichino, considerato, per citare due colleghi vittime del terrorismo, l’erede di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Ideologo di questo gruppo, considerato dai pm e dagli investigatori un’associazione terroristica, era Alfredo Davanzo, classe 1957, originario della Marca trevigiana. Nel 1982 era stato condannato a dieci anni per rapina a mano armata e per questo era fuggito in Francia. Qui venne arrestato nel 1998, ma fu subito liberato dalle autorità francesi a causa della cosiddetta dottrina Mitterand, che prevedeva la clemenza per gli autori di reati politici. In Italia Davanzo tornò da semiclandestino per tirare le fila della nuova banda armata. Si stabilì in un rifugio perso tra le montagne della Carnia senza neppure un cellulare e quando lo arrestarono si dichiarò “prigioniero politico”. Il giorno della condanna in appello a 9 anni, dalla gabbia in cui era rinchiuso, non trovò di meglio che reiterare le minacce a Ichino, in nome della “giustizia proletaria”. Ma per i giudici il suo era un movimento sovversivo senza finalità terroristiche. In pratica giocavano a fare i brigatisti. Il risultato è che dopo 7 anni e 3 mesi (data la buona condotta), il 23 maggio scorso, Davanzo ha potuto lasciare la prigione, dove non aveva smesso, attraverso una copiosa produzione di documenti, di fare “politica”.
A giugno ha vergato una letterina che è stata subito diffusa sui circuiti internettiani della protesta più dura. Un saluto che si chiudeva con questo ottativo: “Lottare, resistere, sviluppare al massimo le reti solidali, anche come embrioni di nuova società. E su questa base, con nuove forze, aprire la strada alla futura Rivoluzione. Davanzo Alfredo militante per il Pcp-m”. Da uomo libero Davanzo, in certi ambienti, è già diventato una sorta di Che Guevara dei Murazzi, una Madonna pellegrina con la cartucciera, il profeta delle “insorgenze”. Anche perché Renato Curcio, già cervello delle prime Br, nelle vicine Langhe, al “rosso” del sangue e dell’ideologia ormai predilige quello del vino. Il 7 luglio scorso un’emittente torinese, Radio Blackout, legata al mondo antagonista e autonomo, ha dedicato a Davanzo una lunga intervista. Dove “Antonio”, questo il suo nome di battaglia, ha potuto farneticare in libertà. Per esempio a un certo punto si è lanciato in una macabra contabilità delle vittime della violenza politica: «Lo Stato e suoi sgherri con le stragi (...) hanno fatto 150 morti. La lotta armata rivoluzionaria in Italia non è arrivata a queste cifre (...) è arrivata a 130 o giù di lì». Per lui, in questo derby da becchini, i “rossi” non hanno nemmeno esagerato. Anche perché «poi bisogna contare tutti i morti fatti dalle forze dell’ordine nelle piazze e negli scontri con noi» ha aggiunto Davanzo. “Noi” chi? Si chiederanno i lettori. E la risposta è facilmente immaginabile. Quando i due conduttori provano a farlo smarcare dalle accuse di brigatismo, lui quasi si offende: «Noi ovviamente non ce ne difendiamo (dall’accostamento ai terroristi ndr), per noi le Brigate rosse appartengono gloriosamente alla storia del proletariato e delle classi oppresse in Italia e sono state la punta avanzata in certi momenti». Quelli del Pcp-m sono «una branca, una diramazione del movimento rivoluzionario», ma la loro «storia deriva dalle Brigate rosse, dalla cosiddetta Seconda posizione: noi lo rivendichiamo, questo fa parte del nostro percorso». Un viaggio che inizia alla fine degli anni ‘80 e che conduce al progetto, irrealizzato grazie alle forze dell’ordine, del Pcp-m, il cui obiettivo era anche «armare le lotte, armare il movimento proletario».
Il linguaggio di Davanzo in questa chiacchierata radiofonica è alquanto confuso, ma il nocciolo del discorso sembra chiaro: nessuna dissociazione dalla Br e dalla lotta armata. Davanzo esalta la «rivoluzione che non è disarmata né pacifista» e rivendica sino in fondo la sua esperienza. «Alla prova dei fatti nella nostra vicenda c’erano effettivamente armi da guerra, non facciamo i santerelli, c’erano kalashnikov e compagnia, c’erano delle prove d’armi in luogo pubblico, c’era un assalto a una banca, tra l’altro riuscito, su questo siamo stati condannati». C’è un però: «Da lì a dimostrare il terrorismo significa quantomeno qualcosa di più se non proprio il morto». Il sillogismo è da vertigine: non sono terroristi solo perché non sono riusciti a uccidere nessuno, anche se si addestravano nelle cave a colpi di mitragliatore. L’argomento si fa ancora più scivoloso quando la conduttrice chiede a Davanzo di spiegare il documento con cui, dal carcere, aveva invitato il movimento No Tav «a fare un passo in avanti», scatenando una bufera mediatica sui vandali dell’ Alta velocità. La puntualizzazione di Davanzo è un autogol: «Il passo in avanti è una formulazione che rivolgiamo al movimento e ai militanti e non tanto a un movimento specifico, perché il movimento No Tav da quello che vediamo sta facendo cose enormi, non ha bisogno di fare nessun passo in avanti, quello che fa è già veramente notevolissimo». La toppa è peggio del buco. A questo punto Davanzo spiega di essere un «vecchio leninista» e che a lui certe parole, come «passo in avanti» o «organizzazione», gli vengono proprio naturali. Ma che deve fare, domanda quasi sorpreso, «stare zitto?». Per lui i capitalisti restano «maiali» e «porci» e se il cetomedio va a rotoli, «tanto meglio». La Rivoluzione è l’obiettivo finale. Mentre è in onda si lascia sopraffare dalla nostalgia: «Ai miei tempi la cosa bella era quando alla catena di montaggio, eravamo tutti uguali, si lavorava tutti in tuta blu». E con la palpebra umida, lancia il suo anatema: «Lo Stato non avrà per sempre il monopolio della violenza». E giù a snocciolare rivoluzioni, da quella russa a quella cinese. In attesa di quella italiana. O almeno valsusina. «Addavenì», ha promesso da sotto il baffone.