Francesco Spini, La Stampa 12/7/2014, 12 luglio 2014
TASSE, BUROCRAZIA, RIGIDITA’. L’ITALIA DICE ADDIO AL BIANCO
Per spiegare la fine dell’elettrodomestico italiano, Marco Vitale, economista di lungo corso, ricorda un episodio che si perde nella notte dei tempi. «Quando la Zanussi all’inizio degli Anni 70 andò in crisi a seguito della morte di Lino Zanussi, ebbi occasione di lavorare su un progetto che cercava di mettere insieme due personaggi importanti dell’industria elettrodomestica italiana e uno dell’elettronica. Era un progetto bello e sensato, avrebbe dato vita a un complesso di caratura internazionale e non riuscimmo a condurlo in porto. Sa perché? Non c’erano né ragioni tecniche, né di tipo finanziario. Solo non si riuscì a dare risposta alla domanda: chi comanda?».
Non si misero d’accordo, e a risolvere il tutto arrivò l’Electrolux che «con quattro soldi, circa 150 miliardi di lire, si comprò la Zanussi che era la migliore azienda italiana». Troppi personalismi, zero spirito di squadra: «Anche in questo settore non ce l’abbiamo fatta per ragioni di cultura imprenditoriale». Questo per Vitale è il vizio di fondo che ha portato alla fine di una storia gloriosa che, nel Dopoguerra, aveva visto gli italiani surclassare gli americani rendendo accessibili a tutti elettrodomestici che prima non lo erano, con nomi quali Zanussi, Zoppas, Ignis, Merloni, l’ultimo ad arrivare sul mercato.
Tra la fine del Ventesimo e l’inizio di questo secolo «l’Italia era diventata la fabbrica d’Europa degli elettrodomestici bianchi, con produzioni di qualità e un costo del lavoro più basso che altrove», spiega Luigi Bidoia, economista alla società di consulenza StudiaBo, ma legava «la competitività alle svalutazioni della lira». Sul mercato si affacciano, aggressivi, prima i turchi poi gli orientali. «Che non competono solo sul prezzo, ma, ad esempio con Samsung, investono e innovano moltissimo, facendo fare un salto di qualità a molti prodotti», ricorda Vitale. L’industria del Bianco targata Italia si va già sfaldando da tempo, preda degli svedesi di Electrolux (Zanussi e Zoppas) e degli americani di Whirlpool (Ignis e ora la Indesit). In Germania no. Gruppi come Bosch e Mìele resistono. Cosa divide Roma da Berlino? «Non è il costo del lavoro che determina la differenza di competitività tra l’Italia e la Germania», assicura Gian Maria Gros-Pietro, ordinario di economia dell’impresa alla Luiss - Guido Carli. A frenare le grandi imprese, sottolinea l’economista pure presidente del cdg di Intesa Sanpaolo, «sono le condizioni di sistema relative alla nostra legislazione, alla pubblica amministrazione, al Fisco...». Sulla manifattura, in particolare, gravano le modalità di impiego del lavoro, da noi più rigide» e che mal si prestano alle esigenze di lavoro della grande impresa di un settore come quello degli elettrodomestici. «Essendo grandi impianti automatizzati richiedono investimenti molto pesanti, che quindi devono essere sfruttati al massimo. E devono anche seguire le fluttuazioni della domanda: c’è bisogno di far lavorare gli impianti di più quando c’è il picco di domanda». Ecco il punto: «Con le rigidità del lavoro, che rendono difficile muovere i lavoratori da una linea all’altra o di spostare l’impiego del lavoro nei giorni e nei mesi in cui c’è più domanda, per fare la stessa produzione ci vogliono più impianti». In Germania non è così.
Con le riforme di un decennio fa il problema è stato risolto. Da noi persiste. La questione dunque riguarda «la redditività dell’investimento - dice Gros-Pietro -. Se un’impresa manifatturiera non dà una redditività sufficiente, non riesce a fare sufficienti investimenti in innovazione sia di prodotto sia di processo. E quindi, alla fine diventa meno competitiva». Ecco perché in Italia l’industria resta un’incompiuta. «Abbiamo una grandissima vivacità nella germinazione di nuove imprese. Le vediamo svilupparsi rapidamente, lanciare prodotti molto interessanti». Ma quando l’impresa raggiunge una dimensione «che potrebbe permetterle di aggredire i mercati internazionali, non ce la fa. Alcune sfioriscono semplicemente, altre vengono cedute a grandi colossi internazionali in grado di cogliere quelle opportunità. Ma questo è un regalo che l’Italia non può continuare a fare agli altri Paesi sviluppati». Tra noi e la Germania, c’è anche una scelta strategica differente.
«Per non finire nella trappola della competizione dei costi, che ci vede perdenti nei prodotti a scarso valore aggiunto, bisogna mirare alla qualità, un fattore che i tedeschi hanno sempre enfatizzato nel promuovere i propri prodotti», aggiunge Enzo Baglieri, economista allo Sda Bocconi. Ora, dicono gli economisti, per non perdere quello che resta - la produzione e le competenze - servono riforme, relazioni industriali più moderne, valorizzando «la riconosciuta qualità della nostra manodopera» che, dice Gros-Pietro, «è difficilmente eguagliabile altrove».