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 2014  luglio 12 Sabato calendario

LA LENTEZZA DI LUIS

«In Italia avete un bellissimo proverbio che dice “chi va piano va sano e va lontano”. Niente di più giusto. La lentezza è un’ancora di salvezza che può aiutarci a vivere meglio, più serenamente e più a lungo. Nella quotidianità bastano piccoli gesti per riuscirci». Luis Sepúlveda scandisce piano le parole per renderle più chiare e dirette. Lo fa sempre, con tutti, in qualunque tipo di conversazione. Anche stavolta mentre si racconta svelando il battito segreto che dà il ritmo alla sua vita. È seduto al tavolo di un bar nel Giardino delle Meraviglie che Renzo Piano ha creato all’interno del Lingotto di Torino, dove lo scrittore cileno ha ricevuto l’abbraccio dei suoi lettori all’ultimo Salone del Libro.
Ordina una bottiglietta d’acqua naturale. Fa caldo e un vento leggero accarezza le rigogliose camelie che lo circondano. «Mi ricordano il mio giardino di casa a Gijón, nelle Asturie – dice Sepúlveda levandosi gli occhiali - è il posto dove ogni giorno scopro la bellezza e la forza della lentezza. La trovo nella natura, dietro una siepe, in mezzo all’erba sul prato. Il mio libro Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza è nato lì».
«Un giorno uno dei miei nipoti, Daniel, mi è venuto vicino con una lumaca in mano e mi ha chiesto il motivo per cui è così lenta. Una domanda difficilissima, perché a un bambino di sette anni non potevo certamente spiegare le caratteristiche muscolari o il sistema motorio di una lumaca. Allora gli ho detto di lasciarmi un po’ di tempo per rispondergli».
La lentezza le ha portato consiglio? «Mi sono documentato, ho fatto molte ricerche e alla fine ho scoperto che nelle diverse culture del mondo questo piccolo animale invertebrato è anche un simbolo di equilibrio. In fondo la lentezza non consiste solo nell’andare piano ma anche nel recuperare un ritmo personale di movimento, di sviluppo».
L’autore di una delle fiabe più lette nel mondo, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare , ha affinato l’arte della lentezza in un modo apparentemente molto banale. Preparando la carne alla griglia per gli amici. «L’asado fa parte della cultura della gente di tutto il cono sud dell’America Latina. Ogni cileno, argentino o uruguaiano ha il suo sistema di fare il fuoco. Io ad esempio ho i miei segreti e mi guardo bene dal rivelarli. Ma non è questo il punto. La verità è che mentre tu fai il fuoco, gli amici o le persone della tua famiglia si avvicinano e si comincia a chiacchierare. La carne cuoce lentamente e le parole scorrono. Ricordo una conversazione intensissima che ebbi intorno alla griglia con Bruno Arpaia (romanziere degli ideogrammi con la punta di un bambù. Milioni di microscopici granelli di sabbia diventavano così parola, vita, lentamente. C’è una bellezza in tutto questo. E c’è la soddisfazione personale che deriva dal fare qualcosa di bello e dal farlo bene».
Anche uno scrittore affermato come lui, prima di diventare uno dei nomi più rappresentativi della nuova narrativa sudamericana, è stato uno scolaro. Che cosa gli è rimasto di quella esperienza? «Il seme della lentezza è stato piantato proprio in quel periodo della mia vita. In Cile frequentavo una scuola normale, una scuola pubblica, laica, gratuita. Dove i maestri avevano ben chiaro in testa che per avanzare nello studio di una materia era necessario che tutti gli alunni avessero capito. Nessuno doveva restare indietro. A costo di perderci del tempo. Ai miei sei figli ho sempre detto che è fantastico se un loro compagno diventa il numero uno della classe, ma non è quello che conta. L’obiettivo della conoscenza non è arrivare primi ma capire le cose, capirle bene. Proprio qualche giorno fa, a Gijón, un ragazzino di dodici anni mi raccontava che dopo le medie farà le superiori e che dopo le superiori andrà all’università. Gli ho detto calma, e traduttore di letteratura spagnola e latinoamericana, ndr), mentre era ospite nella mia casa in Spagna. Ne venne fuori un libro, Raccontare, resistere , che abbiamo poi scritto insieme. Parlammo di tantissime cose, ma non è stato un tempo perso, non lo è mai se non apparentemente. Ascoltare una persona è sempre una fonte di arricchimento».
Sepúlveda si apre in un bel sorriso, generoso, mentre pronuncia la parola amicizia. «Bisogna saperla coltivare piano piano. Nessuno diventa subito amico, è ovvio. Non è un rapporto che si sviluppa in modo veloce. Da parte mia mi sono sempre dedicato molto a costruire questa architettura complessa che chiamiamo amicizia. Ma per farlo servono tempo e pazienza».
Come ce ne vogliono per fare bene il proprio lavoro, e nel suo caso per scrivere un buon libro? «Non si scrive mai velocemente. Quando so che ho lavorato per otto o dieci ore, il risultato finale se la giornata è stata propizia sarà una o al massimo due pagine buone che ho scritto. Ma è una cosa che mi piace enormemente questo ritmo lento di lavoro, mi sembra una scelta di vita importante. Lo diceva anche Enrico Berlinguer, andiamo piano e arriviamo lontano. È così. Non importa il punto al quale si arriva, quello che conta è il tuo movimento, il ritmo che scegli di seguire. Mio nonno mi ripeteva sempre che esiste una sola maniera di fare le cose: farle bene. E se corri non vai da nessuna parte».
Mente parla Sepúlveda si volta per indicare una bellissima pianta di bambù alle sue spalle. «Una volta ho fatto un viaggio in Giappone per visitare una scuola di calligrafia. C’erano questi studenti che con una calma estrema incidevano sulla sabbia calma, adesso pensa a gustarti la vita, lentamente, ogni giorno».
Le lumache fanno così? «La lumaca mi è molto simpatica, non solo perché è il simbolo di Slow Food. Guardare il mondo dal suo punto di vista è interessante, vede passare tante cose velocemente ma in pochi vedono lei. Incarna l’idea che alla consapevolezza e alla soluzione dei problemi non si arriva di colpo ma passo dopo passo».
Un concetto che vale anche per il viaggio come esperienza di vita. «Io sono un giramondo, mi è sempre piaciuto viaggiare, ma mai con la fissazione per la meta. La destinazione finale non mi interessa, il bello è spostarsi con il proprio ritmo. Mi ricordo di un viaggio incredibile in Patagonia con il mio amico fotografo Daniel Mordzinski. Dovevamo percorrere duemila chilometri in due mesi. All’inizio l’ho lasciato sognare. Stava tutto il giorno attaccato al mappamondo, aveva un programma impeccabile. Alla fine riuscimmo a fare solamente centoventi chilometri. Lungo la strada avevamo incontrato centinaia di persone, tantissime storie, che hanno rallentato tutto. Ma è stato quello il vero viaggio».