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 2014  luglio 12 Sabato calendario

Gabo e Allende. Gabo e il Cile. Gabo e Castro. Gabo e Cuba

Sette, 6 settembre 2013
«Due fori di arma da fuoco, da distanza ravvicinata, sotto il mento. Due colpi, ma compatibili con la tesi del suicidio in quanto il mitra si trovava in posizione di automatico». Il freddo referto medico-legale della morte di Salvador Allende è di appena due anni fa, luglio 2011, dopo la riesumazione del corpo. Operazione mediatica e inutile, protestarono in molti. Ma la Storia, come avrebbe detto Fidel Castro, alla fine assolverà chi l’ha voluta. Perché le ultime ore di vita del presidente socialista del Cile, asserragliato l’11 settembre 1973 nel palazzo della Moneda bombardato dagli aerei di Pinochet, sono state un fotogramma importante lungo l’epopea che in questi giorni compie esattamente 40 anni. Quel giorno finì l’esperimento cileno, cioè il socialismo per via democratica, e iniziò un terribile decennio di sangue in buona parte del continente. Ma chi uccise il sogno di milioni di latinoamericani e militanti di sinistra nel mondo intero? Fu la reazione dell’imperialismo e del fascismo contro le classi popolari in cammino verso la vittoria, oppure si trattò della presa d’atto di un fallimento? Come a dire: Santiago 1973 non fu anche l’anticipazione della brutta fine che l’ideale marxista avrebbe poi fatto nel resto del mondo?

Il fallimento della terza via Quell’Ak-47, il Kalashnikov più diffuso, lo aveva portato in dono l’uomo in divisa verde che era già al potere a Cuba da 14 anni, e grazie al quale tutto cominciò. Allende conservava l’arma carica nella residenza presidenziale, come un presagio, ma non lo sapeva nessuno. La rivoluzione di Fidel Castro, l’unica vittoriosa nel continente, era per l’Occidente democratico, Stati Uniti in testa, qualcosa che non si doveva e poteva ripetere. In Italia il Pci di Enrico Berlinguer colse l’occasione dei “fatti cileni” per lanciare eurocomunismo e compromesso storico. L’idea era che il confronto sinistra-destra alla cilena avrebbe portato alla reazione, e quindi all’inevitabile sconfitta. Sei anni prima c’era stato un altro tragico errore di strategia rivoluzionaria. Ernesto Che Guevara era andato a morire, alla testa di uno sparuto drappello di idealisti senza più armi né cibo, in un paesino della Bolivia, ottobre 1967. Ucciso dall’esercito. Ma politicamente fu anche quello un suicidio. I due eroi caduti, Allende e il Che, lasciarono così la vita terrena per entrare nella leggenda, riposare sui poster nelle stanze dei ragazzi italiani di sinistra, sorridere dalle t-shirt in varie tonalità. La reazione alla paura del comunismo in America Latina, che nel giro di pochi anni sarebbe diventata un mosaico di dittature fasciste, servì paradossalmente a tenere in piedi entrambe le tesi: sia quella europea che predicava la moderazione, sia quella opposta che non vedeva alternativa alla rivoluzione in armi, senza via di ritorno. In mezzo il nulla perché Unidad Popular, la terza via di allora, aveva fallito.

Il suicidio “inammissibile” Nel 1973 Gabriel García Márquez stava iniziando ad assaporare la fama planetaria. Il suo Cento anni di solitudine era uscito in Argentina sei anni prima e il mondo sognava con Macondo e i suoi mitologici abitanti attraverso traduzioni a raffica e recensioni gonfie di entusiasmo. Márquez non era ancora il primo Nobel del continente (il premio arrivò nel 1982), ma un giornalista colombiano di grande talento, impegnato nella denuncia sociale, decisamente schierato a sinistra. Pochi mesi dopo il golpe scrisse un testo dal titolo significativo Chile, el Golpe y los Gringos, donò i diritti alla resistenza cilena e promise che non avrebbe più scritto romanzi fino alla cacciata di Pinochet (impegno che per fortuna non mantenne: ad esempio, lo straordinario L’amore al tempo del colera è del 1985). La ricostruzione di Gabo era in linea con lo spirito del tempo: racconta gli incontri dei militari cileni con gli emissari del Pentagono, esalta le conquiste sociali del governo di Unidad Popular, esagera un po’ con i numeri delle vittime della repressione. Quanto alla fine di Allende, Márquez offre una ricostruzione degna delle sue migliori pagine: il faccia a faccia con il generale golpista Javier Palacios, l’incontro fatale nel Salon Rojo della Moneda, tra le false poltrone Luigi XV, mitra in mano, camicia sporca di sangue, il presidente che gli urla “Traidor!” e lo ferisce a una mano, la reazione degli scagnozzi del golpista che lo finiscono. Ultimo colpo da vicino, al volto, per sfregiarlo. Ucciso, quindi, non suicida.
Era la versione ufficiale della sinistra mondiale, togliersi la vita (pur eroicamente) non era ammesso. Ci credeva anche la famiglia, che cambiò idea solo anni dopo, quando spuntarono i testimoni oculari. Anche Castro, in un celebre discorso all’Avana una settimana dopo il golpe, ricostruì l’ipotetico confronto armato finale, con Allende che combatte da eroico guerrigliero fino all’ultima pallottola. Secondo alcuni storici, fu proprio l’approssimazione a Castro, più evidente negli ultimi anni del suo governo, ad aver condannato Allende alla fine. Nel novembre del 1971, il líder máximo era sbarcato a Santiago del Cile per una visita di Stato del tutto anomala. A parte il mitra in valigia, si intende. Doveva restare per dieci giorni, già un’infinità in diplomazia, ci rimase più di tre settimane. Castro visitò il Cile villaggio per villaggio, parlò con migliaia di persone, volle conoscere i minimi dettagli dell’esperimento socialista, concesse decine di interviste. Formalmente rispettoso del protocollo, in realtà si comportò come un leader nazionale: lui giovane, alto, affascinante e dal discorso magnetico, mentre Allende era già un sessantenne fiaccato dalle fatiche della democrazia. Il cubano cercò di capire se il Cile fosse pronto o meno a una vera revolución. Voi siete appena in una fase del processo, continuava a ripetere agli interlocutori. E nell’elogio funebre dell’amico caduto, poi pronunciato all’Avana, si lasciò andare a una considerazione chiara: «Ora i cileni sanno che non esiste altro cammino!».

La benedizione di Márquez Il dilemma tra la rivoluzione secondo i crismi (mai più ripetuta davvero dopo Cuba) e i cammini alternativi ha finito per segnare la storia dell’America Latina fino ai giorni nostri. Dalle alleanze con i cattolici della Teologia della Liberazione, voluta dai sandinisti in Nicaragua, fino al “socialismo del XXI secolo” inventato da Hugo Chávez in Venezuela. Dalle esperienze socialdemocratiche di Lula in Brasile alla revanche indigena di Evo Morales in Bolivia e al neoperonismo dei Kirchner. Lo spirito di indipendenza dal Nord “ricco e avido” è ancora vivo, e spesso vince nelle urne. Tutto è cambiato nel mondo, ma i due personaggi che abbiamo scelto per raccontare questa storia sono vivi, viaggiano verso i 90 anni e assai di più li accomuna che non l’errore sulla morte di Allende. Fidel Castro ne ha appena compiuti 87, Gabriel García Márquez ne ha uno in meno. Entrambi hanno piegato malattie serie e costretto i giornali a riscrivere decine di necrologi precotti. Il colombiano ha sempre un esercito di ammiratori nel mondo, ma purtroppo non scrive più da tempo. Il cubano ha lasciato il potere al fratello Raul, esterna quando ne ha voglia e si diverte a riapparire in pubblico quando lo danno per morto. Il lento declino di Cuba, gli anacronismi del sistema e la mancanza di libertà continuano a pesare sulla sua figura, e Fidel Castro è assai meno mito oggi di un tempo, anche a sinistra. Sul loro rapporto di amicizia sono stati scritti persino un paio di libri. Dura da decenni e resiste a tutto. Certamente Gabo rimase affascinato dalla rivoluzione cubana: lavorò persino per l’agenzia governativa Prensa Latina. Il suo discorso di Stoccolma, nel ricevere il Nobel, è un manifesto di rivolta contro le ingiustizie, la miseria del continente, le dittature dell’epoca. Ma a domanda precisa ha sempre risposto di «non essere, né mai essere stato comunista».
Márquez ha però fatto parte della corte di Fidel, dove il privilegio non sono solo le notti fumose a chiacchierare di tutto con il Comandante, che non ha mai sonno, ma anche la casa de protocolo assicurata e tutta spesata in un quartiere esclusivo dell’Avana. «Parliamo di libri, di letteratura», disse una volta lo scrittore, «io gli porto un romanzo, Fidel lo legge in poche ore e il giorno dopo lo commentiamo». Alcuni suoi biografi hanno visto nella passione fidelista di Gabo niente di più che una fatale attrazione per il potente, alla quale si sarebbe ispirato per costruire alcuni personaggi dei suoi romanzi, dal colonnello Aureliano Buendia di Macondo al vecchio dittatore di L’autunno del patriarca. Ma la stessa passione non è poi sbocciata per Hugo Chávez, dal quale García Márquez si è sempre tenuto a distanza, mentre l’ammirazione per Bill Clinton è nota. Celebre fu la vanitosa richiesta fatta da Márquez per accettare le celebrazioni pubbliche dei suoi 80 anni a Cartagena, nel 2007: «Vengo, ma voglio il re!», disse all’Accademia della lingua spagnola. E Juan Carlos si presentò in Colombia, con la moglie.
Restano dubbie le ricostruzioni sugli interventi che lo scrittore avrebbe fatto per chiedere presso Castro la liberazione di alcuni prigionieri politici. Di sicuro non ha mai preso pubblicamente le distanze dagli abusi del regime. E una volta, allo scrittore e amico Plinio Apuleyo Mendoza spiegò il fatto così: «Non condanno Cuba perché io ho informazioni migliori e dirette, e una maturità politica che mi permette una comprensione più serena e umana della realtà». Forse la stessa che pochi anni fa fece sfuggire allo stesso Fidel Castro, chiacchierando con un giornalista americano, una frase antologica: «Il sistema cubano? Non serve più, nemmeno a noi cubani...». La saggezza, alla fine, arriva per tutti.
Rocco Cotroneo