Gianni Ferrari, Corriere della Sera 12/7/2014, 12 luglio 2014
IN FINALE DUE OPPOSTE VISIONI DEL MONDO
Non si è mai vista una finale mondiale così carica di simboli, di significati, di intenzioni, di valori. Di macroeconomia, di geopolitica, di antropologia, di filosofia (per non parlare della religione...). Un vero e proprio paradiso dell’ermeneutica, ossia della scienza dell’interpretazione. Viceversa, le ultime finali erano state, sotto questo profilo, scialbe e piuttosto deludenti. Spagna-Olanda (2010) e Italia-Francia (2006) erano finali d’Ancien Régime, ottocentesche, piccola politica di potenza sul teatro europeo. Brasile-Germania (2002) e Francia-Brasile (1998) erano state in realtà l’epopea di un ginocchio, quello di Ronaldo, disastrato e causa di sconfitta la prima volta, risorto e causa di riscatto la seconda. Del Brasile-Italia del 1994, resterà temiamo poco, oltre la memorabile (e surreale...) affermazione di Arrigo Sacchi: «Siamo stati sconfitti nel risultato, non nel gioco». E dunque eccoci ritornare indietro di un quarto di secolo a Germania-Argentina del 1990. Alle notti magiche, sotto il cielo di un’estate italiana. Ma non sono più quelle notti (e anche l’estate si fa desiderare), non è più (ahimè!) quell’Italia, non sono soprattutto più quella Germania e quell’Argentina. Allora la Germania, ancora tramortita dalla riunificazione di solo pochi mesi prima, guardava con comprensibile preoccupazione al proprio futuro. L’Argentina, governata — anche lei da pochi mesi — dall’altrimenti ignoto Fernando de la Rua, viveva ancora nel clima di baldoria del decennio di Carlos Menem e nel pittoresco culto di Maradona. Sicché il favore dell’arbitro, che concesse alla Germania un rigore molto generoso e quindi la vittoria, parve tutto sommato giustificabile, un tentativo di riequilibrare la sorte, quasi un risarcimento. In poco meno di venticinque anni la situazione si è non solo capovolta, ma cristallizzata in una implacabile simmetria che, a quel che si vede, ha tutta l’aria di voler durare in eterno. Emisfero boreale contro emisfero australe, stabilità e solidità contro sinistri scricchiolii, ordinata gestione contro trovate estemporanee. L’insistenza sui conti, che tanto spiace alle anime latine (comprese le nostre...), contro le mani sugli occhi per non vedere, per non sapere. E poi un allenatore ben vestito, pulito e ravviato contro l’altro tutto stropicciato e con i cernecchi bianchi al vento, come un vecchio zio un po’ balzano. Calciatori con cui si andrebbe volentieri a cena contro soggetti che, incontrandoli di notte, si tenderebbe a cambiar marciapiede. Una cancelliera (una pastora in verità) preoccupata più di fare il suo mestiere che di essere simpatica contro una presidentessa che sembra uscita dalle pagine di «Cafonal» di Roberto D’Agostino. Una compagine multietnica, comprensiva di turchi, ghanesi, polacchi e tunisini tutti diventati, ma non superficialmente, non per furbizia, tedeschi contro un’altra compagine arroccata in un nazionalismo tanto acceso quanto chiuso. La verità è che la Germania ha un progetto, un’idea di sé. E l’Argentina no. Spira da tutta la Germania una confortante aria di nuova middle class europea. Standard di vita elevati, ma estesi e non esibiti. Cultura non elitaria, ma di buona qualità, non troppa comunque, visti i disastri del passato. Valori non troppo sofisticati e complessi, ma chiari e praticabili. Civiltà di modi, impegno, merito. Il messaggio d’insieme è inequivocabile. L’essere tedeschi non è più questione né di sangue né di terra e neanche di sublimità di pensiero. È una way of life, un modo e un modello generale di comportamento, molto diverso da quello americano. Un modello oggi applicato alla sola Germania, ma da estendersi domani — inevitabilmente — a tutta l’Europa, applicabile a tutti gli uomini di buona volontà. Noi compresi. Certo, se tutto ciò non fosse così ineluttabile, se i tedeschi non fossero così convinti — ma senza iattanza, con pacata ragionevolezza — dell’assoluta bontà della loro posizione, sarebbe meglio, ci sentiremmo tutti meglio. Ma siccome così non è e i giovanotti tutti puliti, con in più l’anziano Klose (perché loro non sono ideologici, badano alla sostanza, non all’anagrafe), son lì a spiegarci che non c’è niente da fare, così si fa se si vuole vincere, ecco che gli sbrecciati argentini si guadagnano, nel segreto del cuore, non poche simpatie. Partono sconfitti, naturalmente. Hanno un giorno in meno di riposo, trenta minuti in più di supplementari, l’energia nervosa bruciata nei rigori, uno dei loro giocatori più importanti infortunato. Proprio per questo la partita che si gioca domani sera oltre che un valore simbolico ne ha uno ben maggiore, profetico, augurale. Guardarla sarà come per gli auguri antichi guardare il volo degli uccelli o il fegato delle capre. Forse vi potremo leggere un presagio su quello che ci attende, sul nostro futuro. Perché in definitiva, se è vero che la ragione (cioè i conti) sono l’unica luce di cui disponiamo in questa valle di lacrime, è anche vero che, come diceva Lawrence d’Arabia, nulla è scritto. Neppure il risultato di una finale .