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 2014  luglio 12 Sabato calendario

Un articolo di Paolo Granzotto

Il Giornale, 20 luglio 2011
E così, ora è ufficiale, è certifica­to: quell’11 settembre 1973, era un martedì, Salvador Allende si suici­dò. Facendosi saltare le cervella con il mitra che gli aveva regalato Castro. Un Kalashnikov sul calcio del quale era applicata una plac­chetta dorata con questa iscrizio­ne: «A Salvador, de su compañero de armas, Fidel Castro». Lo riferi­sce Patricio Bustos, il responsabile del servizio medico legale di San­tiago del Cile che ha eseguito le ana­lisi su cadavere esumato nel giu­gno scorso. Lo sapevano tutti che le cose andarono così, che Allende non morì entro l’edificio della Mo­neda perché giustiziato a sangue freddo dai militari del generale Ja­vier Palacios.
Ma la vulgata di sinistra s’inte­stardì ad affermare il contrario, for­te anche di una cronaca di quei mo­menti, tanto retorica quanto falsa, che ne fece Gabriel García Márquez, Gabo, ovviamente non pre­sente ai fatti. E per il quale il com­pañero Presidente era morto da eroe e da martire, sotto il fuoco ne­mico. Confermarono questa ver­sione la vedova Hortensia Bussi e Mira Contreras detta «la payita», la ragazza, segretaria (molto) partico­lare di Allende. Ci giurò sopra tutto l’internazionalismo rosso e l’inte­ra sinistra nostrana. Nemmeno quando, una decina di anni dopo la presa della Moneda, Patricio Guijon, il medico personale di Al­lende, rivelò di esser stato testimo­ne oculare del suicidio, - raccon­tando che resosi conto che nessu­no più difendeva il palazzo il com­p­añero Presidente afferrò il kalash­nikov, se lo puntò al mento e fece partire una raffica - la sinistra si ras­segnò. Disse che quelle di Guijon non erano che miserabili fandonie fatte mettere in giro dalla Cia. Oggi, che sono trascorsi quasi qua­rant’anni e il mito di Allende ha per­duto - per chi se lo ricorda - tutto lo smalto, probabilmente a nessuno verrà in mente di contestare il dot­tor Bustos. Anche perché sulla sto­ria del Cile golpista conviene loro non tornar sopra, lasciandola così, sospesa nella mezz’aria dell’icono­gra­fia che se ne è fatta a ferro anco­ra caldo (va ricordato, a tal proposi­to, che l’Italia - l’Italia degli Anni di piombo - fu l’unica nazione al mon­do a non riconoscere il regime, du­rato diciassette anni, di Pinochet. Chiudendo la nostra rappresen­tanza diplomatica a Santiago e mantenendo accreditato a Roma l’ambasciatore nominato da Allen­de). La quale iconografia non tiene ovvimente conto del «tanqueta­zo », il primo golpe fallito ma segui­to da uno sciopero generale contro Allende al quale parteciparono perfino i minatori, quasi tutti marxisti. Né della denuncia della Corte suprema che all’unanimità denunciò il governo Allende per aver soppresso la legalità nella na­zione. E neppure del generale, pro­fondo malcontento dei cileni per il disastro economico gravato dal­l’inflazione alle stelle, per la disoc­cupazione dilagante, del disordi­ne sociale, dell’arrogante invaden­za delle centinaia di «encargados» internazionalisti e delle decine e decine di «consejeros» del Kgb so­vietico che insieme contribuirono al totale fallimento dell’esperimen­to marxista in Cile. Che non giustifi­cò certo il golpe di Pinochet, ma lo spiega molto bene. Quando il gene­rale Prats - ministro della Difesa e comandante delle Forze armate - ­reagì sparando con la pistola d’or­dinanza agli insulti che gli rivolge­va una giovane, Alejandrina Cox, i primi a scendere in piazza contro la protervia del regime furono pro­prio i suoi colleghi, con le mogli e con i figli. Tutte cose, si diceva, che la sinistra non ritiene di dover ri­vangare. Per cui prenderà atto sen­za batter ciglio che il compañero Presidente morì sì con l’arma in pu­gno, ma rivolta verso se stesso.
Paolo Granzotto