Stefano Zurlo, il Giornale 12/7/2014, 12 luglio 2014
TOH, ORA SPUNTA LA VERA MACCHINA DEL FANGO: A PROCESSO 11 GIORNALISTI
Come si distrugge una carriera. Triturando la reputazione del vicecapo della Polizia col veleno e le menzogne. Sì, le bugie, le voci e le suggestioni messe in fila dalla mano invisibile di un Corvo senza nome sono diventate gli articoli di una violentissima campagna di stampa che ha polverizzato l’onore di Nicola Izzo, il vice di Antonio Manganelli, in predicato per prenderne il posto. Nell’Italia delle macchine del fango questa storia ha un peso importante, anche se è scivolata via, nell’indifferenza generale. E invece a quasi due anni di distanza dai fatti, Izzo torna su quella vicenda terribile in un’intervista a Libero: «Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa».
In sintesi, si è costruita un’inchiesta sulle colonne portanti della diffamazione e della disinformazione. E Izzo, travolto da tanto accanimento, è uscito di scena. Li avesse scritti il Giornale quei pezzi, sarebbe probabilmente scoppiato uno scandalo, si sarebbe evocato il metodo Boffo e chissà che altro. Invece, il Corvo ha fornito mangime avvelenato a giornali politically correct e così tutto è finito nel dimenticatoio. O quasi. Perché 11 articoli usciti fra il 2 e l’8 novembre 2012 su Repubblica, Il Fatto quotidiano e il Messaggero saranno oggetto di un processo che ha come imputati per omesso controllo i tre direttori delle testate: Antonio Padellaro, numero uno del Fatto, Ezio Mauro per Repubblica, Mario Orfeo, allora alla testa del Messaggero e oggi al comando del Tg1. E per diffamazione gli autori dei pezzi incriminati: Carlo Bonini, Alberto Custodero, Silvia D’Onghia, Valeria Pacelli, Antonio Massari, Massimo Martinelli, Valentina Errante, Sara Menafra. Caduti nella trappola di un anonimo, offerto ai lettori a titoli cubitali, senza se e senza ma, senza verifiche, senza provare a dar voce a Izzo, senza farsi venire alcun dubbio, senza prendere in considerazione l’invito della Procura di Roma a diffidare e a non impaginare le perfide rasoiate dell’oscuro accusatore. Tutto inutile.
È il 2 novembre 2012 quando Repubblica lancia a tutta pagina la campagna denigratoria. L’autore dell’articolo spiega correttamente che la fonte del dossier - una ventina di pagine, molto dettagliate - è senza volto ma poi accredita come importantissimo quel documento, quasi una mappa della corruzione per commesse milionarie delicatissime: dalla gestione del numero unico europeo della sicurezza (112) al rilevamento delle impronte digitali da parte della Polizia scientifica. In effetti l’anonimo è arrivato al ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri che di default l’ha inviato alla Procura. E questo basta per scatenare il finimondo. «Ma ciò che più ha colpito gli inquirenti - racconta Repubblica - è l’ultimo capitolo ...». Insomma, sembra che una squadra di pm stia scavando sulla base delle indicazioni del misterioso untore. E invece è vero esattamente il contrario. Il 7 novembre, qualche giorno dopo, il procuratore Giuseppe Pignatone dirama un comunicato che fa piazza pulita delle insinuazioni: «La legge non attribuisce alcun valore probatorio agli scritti anonimi, né tantomeno consente l’iscrizione di alcuno nel registro degli indagati sulla sola base di tali scritti». Dunque, non s’indaga su Izzo, ma semmai sull’identità dell’introvabile calunniatore. Ma i giornali - Il Fatto, Repubblica, il Messaggero e nella loro scia altri autorevoli fogli d’informazione - rovesciano il concetto. Izzo in quel momento è indagato a Napoli per turbativa d’asta: l’inchiesta vivacchia da un paio d’anni e non c’entra nulla con quel che va spacciando l’anonimo, ma tutto serve per alimentare il falò. Nessuno sembra più distinguere la Procura dal Corvo e tutto il ciarpame acquista autorevolezza. Il 3 novembre Repubblica rincara la dose e specifica che quelle pagine «squadernano con dovizia di dettagli una sorta di macroscopica corruzione, il lavoro infedele di una “cricca - si legge nell’anonimo - agli ordini di un “puparo”». Dove il puparo, naturalmente, è Izzo. Devastante. Lui prova a dimettersi, lo bloccano. Il momento è delicatissimo: Manganelli è gravemente malato e in quei giorni Roma ospita un convegno mondiale delle polizie. Uno scenario perfetto per spazzare via le ambizioni di Izzo. L’intensità del fuoco aumenta. Il 6 novembre Il Fatto titola in prima pagina: «Le procure indagano». In realtà l’indomani Roma smentirà con quella nota, snobbata da tutto il circo dell’informazione. Ormai i giochi sono fatti: Izzo, distrutto, lascia definitivamente per salvare dagli schizzi di fango almeno Manganelli che morirà di lì a qualche mese. Raggiunto lo scopo, le grandi firme si ritirano in buon ordine e il caso viene dimenticato. L’inchiesta campana, intanto, viene trasferita nella capitale e Roma nell’aprile di quest’anno proscioglie a tutto campo l’ormai ex superpoliziotto. Troppo tardi per rimediare ai danni provocati da una campagna infame, scritta dagli artigli di un Corvo rimasto senza nome.