Jacopo Frenquellucci, pagina99 12/7/2014, 12 luglio 2014
FARE SOLDI CON MUSICA E GATTINI I CONFLITTI DELLA YOUTUBE ECONOMY
Ogni minuto su YouTube vengono caricati video per più di 100 ore di lunghezza complessiva. Un archivio sterminato, a cui nel giro di un mese accede più di un miliardo di persone: numeri che fanno di YouTube – fonte Nielsen – il network video con più pubblico al mondo.
Da maggio 2007 la società di San Bruno (California) ha lanciato il suo “Partner Program” che, basandosi sul sistema di pubblicità AdSense di Google, offre una forma di monetizzazione a chi rende YouTube il terzo sito più visitato al mondo. I pubblicitari di TubeMogul quantificano in 7,6 dollari il costo medio che una società paga ogni mille utenti che guardano il suo spot: si parte dai 2,5 dollari per i video meno appetibili e si arriva a 10 dollari per i contenuti più richiesti. Di questa cifra, la maggior parte il 55% va al proprietario del canale, la rimanente resta nelle casse di YouTube: fa parte del “Partner Program” oltre un milione di utenti, e di questi più di 100 mila raggiungono entrate annue ad almeno cinque zeri. Nel 2013, scrive The Informer, gli incassi pubblicitari del portale sono ammontati a 3,5 miliardi di dollari, per un netto di 1,5 miliardi dopo aver corrisposto il dovuto a partner e creatori di contenuti.
Felix Kjellberg, in arte PewDiePie, è balzato di recente agli onori della cronaca come “il ragazzo da 4 milioni di dollari”: a tanto è ammontata nel 2013 la sua fetta di guadagni coi video condivisi sul canale YouTube in cui prova in diretta e commenta le ultime novità in fatto di videogiochi. PewDiePie ha guadagnato in un anno quanto costa uno spot di 30 secondi al Superbowl, con un pubblico potenziale di un miliardo di persone. Il 24enne svedese ha già superato i cinque miliardi di spettatori, con una media di 340 milioni al mese, dietro solo alla Emi Music e a Rihanna. Il suo video più popolare, A funny montage, sfonda quota 50 milioni di visualizzazioni, e gli iscritti al suo canale – cioè i fan che vogliono essere aggiornati su ogni nuova uscita – sono 28,3 milioni: nemmeno Katy Perry (13 milioni) e gli OneDirection (12 milioni) lo raggiungono, YouTube stesso si ferma a 22 milioni e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama non arriva a 580 mila. PewDiePie oltretutto non accetta l’aiuto di professionisti per la realizzazione dei suoi video e ha scelto di ridurre i post, in nome della qualità. Secondo Socialblade, un servizio di statistiche per social network, i guadagni di Felix potrebbero arrivare anche a 16 milioni di dollari all’anno, se sfruttasse ogni possibilità di introito.
Il ragazzo fa parte di un network legato al mondo dei videogiochi, Polaris, a sua volta una delle tre divisioni della Maker Studios, società che nel marzo 2014 è stata acquisita dalla Walt Disney per 950 milioni di dollari. La Maker non produce video: il suo compito è gestire, organizzare e promuovere gli youtubers, in cambio di una percentuale (solitamente il 30%) degli introiti pubblicitari. Si chiamano in gergo Multi-channel networks (Mcn), ed è loro il compito di trasformare fenomeni spontanei in personaggi mediatici.
Awesomeness TV conta 86.539 canali, quasi due milioni di video e più di cinque miliardi di visualizzazioni, ed è stato il primo caso di Mcn ceduto a una grande compagnia: Dreamworks lo ha acquistato nel 2013 per 117 milioni di dollari, dopo che un’offerta della Time Warner da 36 milioni era stata rifiutata senza indugi. Il Ceo di Awesomeness TV è Bryan Robbins, produttore di telefilm di successo, fra cui Smallville e One Tree Hill, e tra i primi a intuire le potenzialità di YouTube come piattaforma tradizionale, con il suo palinsesto e il suo pubblico.
Non sembra dirigersi verso un lieto fine la storia d’amore tra YouTube e le grandi compagnie. Eppure tutto era iniziato sotto i migliori auspici: nel 2011 il gruppo Google aveva investito oltre 200 milioni di dollari per convincere alcuni tra gli utenti più popolari a creare un canale espressamente a misura di pubblicità. Hanno usufruito del contributo soggetti affermati come la BedRocket Properties, appoggiata dall’Huffington Post, o IGN, con alle spalle NewsCorp, tanto quanto star del livello di Madonna e del pluricampione Nba Shaquille O’Neal. Da allora sono nati successi come Chronicle, lungometraggio che il Mcn BigFrame ha prodotto insieme a 20th Century Fox, capace di incassare nei cinema, dopo una campagna promozionale on-line, 127 milioni di dollari a fronte di un budget da 12 milioni.
Proprio BigFrame, ultimo acquisto della Dreamworks in ordine cronologico – giugno 2014 –, è stata una delle prime società a prospettare quella che potrebbe essere una diaspora dei produttori di contenuti da YouTube. Il Ceo Steve Raymond è stato netto: «È difficile far funzionare dal punto di vista economico una programmazione premium, finché YouTube concede una percentuale delle entrate così bassa e non ha a disposizione una struttura di marketing adeguata».
Per Shane Smith, responsabile web di Vice, la rivista statunitense il cui canale è tra i 100 più seguiti al mondo, «non è scontato riuscire allo stesso tempo ad avere successo e a guadagnare», e per questo motivo ha annunciato che «la pubblicità attraverso YouTube non vuole essere la nostra principale fonte di entrata». Il progetto di Smith è trovare grandi partner commerciali che finanzino i video prima ancora della loro uscita, come è accaduto con Intel per The creators project, l’iniziativa legata all’arte che ha coinvolto nomi importanti da Takeshi Murata fino a David Bowie.
Freddiew, stuntman da quasi 7 milioni di iscritti e oltre un miliardo di visualizzazioni, ha deciso di mettersi in proprio: ha lanciato un portale, RocketJump, dove condivide in anteprima le acrobazie migliori. Mille visite su un sito di sua proprietà, spiega, possono fruttargli anche 20 dollari, il doppio del massimo che offre YouTube.
Secondo Mark Pavia, numero uno della sezione digitale di Starcom, società che gestisce ogni anno 10 miliardi di dollari di pubblicità, «il modello YouTube non funziona per gli inserzionisti: manca uno staff dedicato a vendere spazi video, dal momento che adSense offre Youtube insieme ad altri prodotti Google, come il motore di ricerca, e ragiona per audience complessiva e non per singolo show o network».
A proporre una soluzione è l’esperto di business online e fondatore di Weblogs Jason Calacanis: «YouTube ridurrà il suo profitto al 30%, lasciando all’utente il 70% degli introiti, per evitare che i soggetti più importanti scelgano altre piattaforme, ma questo non accadrà prima del 2015, perché sono consapevoli che nessuno può offrire un pubblico così numeroso».
La prima risposta di YouTube non si è fatta attendere: il 9 maggio 2013 la società ha annunciato il nuovo servizio di sottoscrizione, permettendo ai canali di offrire abbonamenti per contenuti extra a partire da 99 centesimi di dollaro a settimana. «Oggi più di un milione di utenti genera entrate su YouTube – si spiegava al momento del lancio–, e una delle richieste più frequenti è una maggiore flessibilità nel monetizzare e nel distribuire contenuti». L’esito non è quello sperato: nessun canale a pagamento muove grandi numeri, anche perché rimane il problema di una quota troppo significativa da cedere al portale.
A San Bruno hanno allora deciso di intraprendere una nuova strada per diversificare il portafoglio, scegliendo di sfidare Spotify nel campo della musica in streaming a pagamento. Il nuovo servizio, che secondo le prime indiscrezioni dovrebbe chiamarsi YouTube Music Pass, nasce da un’evidenza numerica: dei 10 canali più visti, ben sette riguardano musicisti. L’abbonamento, di cui è ancora ignoto il costo, permetterà di evitare i messaggi pubblicitari, di ascoltare musica anche off-line e di fruire di interi album, oltre che di singole canzoni. Al momento più del 95% delle imprese musicali presenti su YouTube ha accettato l’accordo, a cifre rigorosamente top-secret, e la paventata fuga delle etichette indipendenti – che annoverano anche nomi del calibro di Radiohead e Adele – non si è concretizzata, nonostante l’allarme lanciato il mese scorso dalla “Worldwide independent music industry network”, secondo cui la proposta sarebbe stata «fortemente svantaggiosa e non negoziabile».
Da YouTube invece tendono a ribadire di avere un unico obiettivo: «Vogliamo far crescere gli incassi dei nostri partner» . Del resto, al Brandcast di maggio, l’evento organizzato da Google peri suoi inserzionisti, l’intento di tranquillizzare i portatori di interesse era stato più che evidente, e non solo per la scelta di invitare Pharell con la sua hit Happy come ospite. A lasciare il segno è stata la disponibilità di Robert Kyncl, direttore delle operazioni commerciali di YouTube, che ha rassicurato i presenti sulle intenzioni della società: non solo un accordo con ComScore per misure l’audience, ma anche una nuova funzione per valutare l’interesse verso un brand tramite il numero di ricerche effettuate; e soprattutto “Google Preferred”, una nuova iniziativa che permetterà di acquistare spazi pubblicitari solo nei video più popolari legati a un determinato argomento.