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 2014  luglio 12 Sabato calendario

GRANDE INVASIONE, POCA QUALITA’

Helder Postiga da Vila do Conde, Portogallo, che da bambino andava in barca a pesca di sardine: celo. Tomasz Kupisz da Radom, Polonia, che giocava al Jagiellonia, l’unica squadra più impronunciabile del suo cognome: celo. Erik Friberg da Lindome, Svezia, che chiamavano Mr. 100% perché, leggenda o verità, nel 2013 segnò 6 gol calciando in porta 6 volte: celo. La Serie A li ha collezionati tutti, figurine di calciatori di alto livello, assieme a campioni come Higuain e Pogba. A contarli ci si rende conto che il nostro è un campionato a metà: 10 squadre su 20 hanno avuto più minuti da stranieri che da italiani (la divisione totale è 54,1-45,9%), l’Inter addirittura il 92,2%. Ma se ci sono stranieri al di sopra di ogni sospetto, da noi ci sono soprattutto stranieri sospetti. L’Italia che vuole ricostruire si interroga sugli ultimi, perché nell’ultimo campionato 109 stranieri di A hanno giocato meno di 8 partite da titolare. Togliendo dall’elenco i ragazzini e gli infortunati, restano 60 calciatori, pagati e quasi mai utilizzati: sono gli stranieri inutili. Non solo, da tre stagioni la media-voto Gazzetta dei calciatori italiani è superiore a quella dei colleghi non convocabili in Nazionale, statistica che negli anni 90 era francamente impensabile: sono gli stranieri insufficienti. E il fatto che i 60 di cui sopra abbiano quasi tutti una media-voto negativa è una cartina al tornasole della qualità media. Per questo, è tempo di modificare il luogo comune del Bar Sport: abbiamo troppi stranieri, e di questi tanti sono pure scarsi.
Il paradosso è che la Serie A è uno dei campionati con le norme più restrittive per il tesseramento di calciatori extracomunitari. Sostanzialmente da noi se ne possono prendere due dall’estero a patto che ne escano altrettanti, nel rispetto della legge che regola i flussi migratori. Dall’altra parte del mondo, invece, Löw ha dato 7 gol al Brasile con 7 calciatori sotto i 26 anni, vantaggio non da poco in termini di freschezza, e può farlo perché ai massimi livelli ha un bacino di pesca enorme rispetto a quello di Prandelli che non ha passato il girone: il confronto tra il minutaggio in percentuale tra indigeni e stranieri diviso per fasce di età evidenzia che tra i 18 e i 25 anni quelli che calcano la Bundesliga sono per la maggior parte tedeschi, da noi esattamente il contrario. Eppure le limitazioni agli extracomunitari sono qui, non là. In Germania puoi prenderne quanti ne vuoi. In Spagna un calciatore che gioca da 5 anni nel paese può essere naturalizzato: ai puristi può non piacere, ma Senna prima e Costa poi li hanno presi così. In Inghilterra, invece, dove hanno un sistema teoricamente improntato sull’eccellenza di chi entra (sei il benvenuto se mi dimostri che il tuo arrivo ci migliora, in sostanza), sono in allarme come e peggio che qui, hanno già riformato le strutture delle giovanili e valutano se mettere un cancello agli extra.
Il nostro sistema è abbastanza umorale: dopo la scoppola del Mondiale 2010 la Figc portò gli extracomunitari a uno, un’estate dopo tornò a due, i club di recente hanno spinto invano per il terzo. «Una follia imporci di acquistare italiani, non ci sto, siamo in un villaggio globale», tuonava il presidente del Napoli De Laurentiis. E gli esempi di cui sopra testimoniano che magari i limiti non sono la soluzione, che altro non fanno se non stimolare la tendenza ad aggirarli, vedi la caccia al passaporto a ogni mercato o la gabola italiana per tesserare nuovi extra: ne metto sotto contratto uno di basso livello a due lire, lo piazzo all’estero e lo sostituisco col grosso nome. In Olanda hanno dei minimi salariali alti per chi viene da fuori onde evitare l’arrivo di bidoni, in A molti sostengono che andrebbe contingentato il numero di atleti cresciuti in loco (cosa che sulla carta già c’è, ma contemplando rose anche da 50 elementi...) e tolti più paletti al mercato. Il capo degli osservatori di una squadra di A, che preferisce restare anonimo, osserva: «Se chiudi agli extra restringi il mercato ai soli comunitari, il prezzo sale e la qualità scende. Se vuoi proteggere i nostri evitando l’ingresso di stranieri, non hai mai fatto calcio. Cosa farei? Un minimo di italiani in distinta e poi libertà».
Che le big attingano a piene mani da fuori ci sta: globali sono gli impegni, tali anche le rose. In Italia invece è a livello medio-basso che abbiamo iniziato a importare di tutto, con esiti variabili. Il Catania nel 2012-13 ha centrato un signor ottavo posto e l’anno dopo è retrocesso, la costante è che ha sempre avuto più argentini che italiani. «A volte capita che lo straniero abbia abitudini diverse - dice Rolando Maran, che i siciliani li allenava -, ma per la gestione del gruppo non fa differenza. Il mercato oggi è aperto, ed è giusto che lo sia anche il nostro calcio che al tempo stesso non deve scordarsi i vivai». Ma cosa c’è alla radice di una scelta? Secondo Federico Pastorello, agente che ha gestito tante operazioni importanti tra Italia ed estero, «altrove i dirigenti sono più attenti e preparati. I comunitari? Si cerca di avere la stessa qualità a un costo più basso». E più di una volta dai procuratori si sentono ripetere mantra tipo: «Lo proposi a X per pochi soldi, mi risero in faccia, poi lo ha preso Y che fa la Champions». Poi il costo alto dei nostri, a partire dai giovani: le piccole hanno rose gonfiate di prestiti, coltivano pochi gioielli, sono costrette a sparare alto per monetizzare e spesso tendono a venderne la metà (ma ora non si può più) per poter trattare ancora l’anno dopo. Esempio di questi giorni, senza far nomi: una squadra di A cerca un centrale per le giovanili, adocchia un adolescente di Lega Pro che promette bene, si sente chiedere mezzo milione e ripiega su un pari età francese che le costa un decimo.
Questione di garanzia E non solo dei giovani, perché c’è una questione tecnica che pesa non poco: i trasferimenti interni devono essere garantiti da fideiussioni bancarie, per l’estero l’obbligo non sussiste. «Al Genoa sono stato “forzato” a prendere stranieri - ha detto qualche giorno fa a Sportitalia l’ex ds rossoblù Delli Carri -, non avevamo la possibilità di fare le fideiussioni necessarie per acquistare in Italia». Un anno fa circa, giova ricordarlo, la Federazione varò una serie di norme per oliare le trattative interne e impedire fughe di capitali: abrogato lo stop al mercato in caso di fatturato inferiore di almeno 4 volte ai debiti finanziari e 3 all’indebitamento totale, più flessibilità nella rateizzazione ma il sistema fideiussorio resta e dal 2015-16 servirà anche per iscriversi al campionato (per ora era solo per le coppe) aver saldato le pendenze con i club stranieri. L’estero poi può portare a infilarsi in strane paludi economiche: dalle terze parti nell’affare, da sempre nel mirino di chi si occupa di riciclaggio e divenuta quasi prassi in certi paesi, alle elusioni fiscali nelle transazioni che ogni tanto emergono e si fanno caso internazionale. Uno spuntò fuori due anni fa in Argentina, partì dai peregrinaggi «strani» dell’ex meteora doriana Bottinelli, scoperchiò varie triangolazioni sospette individuando una decina di «paradisi fiscali sportivi», e l’Afip (l’Equitalia argentina) indagò anche sui passaggi di Roncaglia alla Fiorentina e di Parra e Matheu all’Atalanta. Intanto il mercato continua: Prandelli vuol portarsi in Turchia un paio di azzurri, l’Udinese spinge Scuffet in Spagna, 6 degli 11 titolari dell’U21 vicecampione d’Europa sono all’estero. Messaggio ai presidenti: prima di aggiustare le regole, magari teniamoci i nostri.