Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Il sistema elettorale spagnolo, che tanti avrebbero voluto importare da noi, ha prodotto da loro un risultato paralizzante: nessun partito ha la maggioranza per governare, nessuna coalizione sensata (destri con destri o sinistri con sinistri) ha la maggioranza per governare, l’unica possibilità è la solita grande coalizione che s’è già fatta in Germania e praticata anche troppe volte in Italia, cioè il più forte partito della destra con il più forte partito della sinistra, e chi s’è visto s’è visto.
• Lei ha questa capacità di mischiare tutto, grazie alla quale riusciamo a non capire bene niente. Non si potrebbe cominciare dal risultato del voto puro e semplice, percentuali e seggi, come si faceva una volta?
Certo, la accontento subito. A metà scrutinio (scriviamo alle dieci di sera), la situazione alle Cortes è questa: Partito Popolare (i democristiani) 28,04% dei voti e 125 seggi; Psoe (i socialisti) 22,71% dei voti e 94 seggi; Podemos (gli anticasta di sinistra, la Syriza locale, i simil-Tsipras) 20,43% dei voti e 68 seggi; Ciudadanos (gli anticasta di destra) 13,20% dei voti e 34 seggi. I seggi sono in tutto 350, la maggioranza assoluta si trova a quota 176. Sommando i popolari con Ciudadanos si arriva a 159. Sommando i socialisti con Podemos si arriva a 162. Sommando i popolari con i socialisti si arriva a 219. Quello che tentavo di far entrare nella sua zucca all’inizio: l’unico governo possibile è la grande coalizione, o grande ammucchiata, vale a dire democristiani con socialisti.
• Avrebbe senso?
Un senso potrebbe avercelo. I popolari, guidati da Mariano Rajoy, fino a ieri governavano addirittura da soli. Sia loro che i socialisti, guidati adesso da Pedro Sanchez, hanno perso una valanga di voti rispetto alle elezioni di cinque anni fa. Sono anche i due partiti che dalla morte di Franco in poi (1975) si sono alternati al governo, senza terzi incomodi. E sono tutti e due europeisti, corrotti, responsabili della crisi in cui si trova la Spagna, disoccupazione alle stelle e quant’altro. Mettendosi insieme creerebbero l’alleanza del vecchio contro il nuovo, della provincia contro le grandi città, eccetera. Il nuovo essendo formato dai sinistri di Podemos e dai destri di Ciudadanos, entrambi prodotti della rivolta contro la casta, e, sia pure con gradazioni diverse, critici con l’Europa che conosciamo (austerità, primato tedesco, ecc.). I Podemos, cone ricorderà, sono figli legittimi della rivolta degli Indignados.
• Chi decide?
Il re, cioè il giovane Filippo VI, che alla fine di gennaio, un paio di settimane dopo la riunione del nuovo Parlamento (convocato per il 13 gennaio), darà l’incarico per la formazione del governo. A regola, dovrebbe toccare a Rajoy, capo del partito più votato. Senonché la coalizione di sinistra, allo stato dello scrutinio, sembra avere più voti della coalizione di destra. Avremo un ritorno di Sanchez al Palazzo della Moncloa? In Portogallo si sono trovati in una impasse simile ed è uscito fuori un governo di sinistra.
• La Catalogna che vuole staccarsi?
È un problema, ma non così urgente. Iglesias, il capo di Podemos, catalano, è contrario alla secessione ed è stato il più votato dai suoi conterranei.
• Potrebbero essere necessarie nuove elezioni? Com’è che il sistema elettorale spagnolo, tanto esaltato da noi, ha prodotto un risultato così poco utilizzabile?
A che servirebbero nuove elezioni con questo sistema elettorale? Ne uscirebbe, temo, un risultato ugualmente bloccato. Bisognerebbe che i quattro partiti con una consistenza significativa - cioè Popolari, Psoe, Podemos e Ciudadanos - varassero in fretta un sistema elettorale tipo Italicum. Si vota e se nessuno vince si va al ballottaggio tra i primi due, con premio di maggioranza. Ieri la Boschi ha subito cinguettato: «Mai come stasera è chiaro quanto sia utile e giusta la nostra legge elettorale». Il sistema elettorale spagnolo piaceva ai nostri perché prevede lo sbarramento al 3%, il che impedisce alle formazioni lillipuziane di passare. E soprattutto perché riconosce un premio di maggioranza implicito col metodo di disegnare collegi elettorali piccoli ciascuno dei quali manda in Parlamento pochi deputati. Di fatto, è come dare un premio di maggioranza del 6-7% ai partiti più grandi, e infatti se lei torna alle prime righe e confronta percentuali e seggi, vedrà che i seggi ottenuti da ciascuno dei due grandi sono superiori alle percentuali di consenso raccolte. I nostri cantori di quel sistema non avevano fatto caso però al fatto che in realtà i partiti in gara in Spagna, storicamente, sono sempre stati due, e quindi non c’è mai stato problema. L’altro fatto nuovo di questo risultato è infatti proprio questo, la fine del bipartitismo, la necessità di far coalizione, di mediare, di accontentare gli alleati e qualche volta pure gli avversari. La Spagna, cioè, senza averne la cultura, è precipitata anche lei nell’inciucismo maledetto di marca italiana.
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