La Stampa, 21 dicembre 2015
Rajoy è primo, ma non ha vinto. E ora?
È primo, ma non ha vinto. È in testa, ma difficilmente governerà. Quei numeri che in campagna elettorale Mariano Rajoy ha sbandierato senza sosta, ora lo condannano a un percorso a dir poco accidentato, fatto di trattative, patti, geometrie variabili, un terreno che non è il suo, né del suo partito, abituato ad altri tipi di maggioranze.
Il premier «che ha portato il Paese fuori dalla crisi», come recitava il mantra elettorale, l’uomo della «Spagna sul serio» (lo slogan onnipresente nei manifesti) ora rischia di dover tornare alla Moncloa solo per fare le valigie.
Lui comunque ci prova, a mezzanotte si affaccia nel balcone della sede della Calle de Genova e ai militanti (non troppo entusiasti) e a tutti gli altri dice: «Abbiamo vinto le elezioni, la prima forza deve formare un governo. Io ci proverò, so che bisogna parlare con tutti e lo farò». Il punto è che, visto il clima, non saranno in tanti a parlare con lui.
Riforme ed Europa
Rajoy le ha provate tutte per valorizzare i segni della ripresa spagnola, «la più netta d’Europa», ripeteva anche venerdì scorso nel comizio di Valencia. Anche la data delle elezioni era stata spostata in là quasi fino a farle coincidere con il Natale, nell’intento di sfruttare i dati sul lavoro, che mostravano che i disoccupati sono meno, rispetto al 2011, l’anno del ritorno al potere nel pieno della crisi, «dello spread e del riscatto nessuno parla più» sosteneva, «stiamo meglio dell’Italia», aggiungeva rispolverando un derby del Mediterraneo, frequentato talvolta anche da Matteo Renzi.
Le riforme, in effetti sono apprezzate in Europa, in particolare quella del mercato del lavoro, che tutti gli altri partiti (con diversi accenti) vogliono cambiare, proposito che spaventa investitori e mercati. La parola d’ordine «stabilità» dopo i tanti comizi in giro per la Spagna è tornata a risuonare ieri notte dal balcone della Calle Genova: «Bisogna perseverare nelle riforme».
Sorridente dopo i risultati
In fondo, però, quel sorriso ostentato davanti alle bandiere non è innaturale: Mariano, infatti, è sopravvissuto anche a questo giro. L’umiliazione che si prospettava qualche mese fa non c’è stata. Gli analisti spiegheranno nelle prossime ore quanto ha influito una campagna elettorale tutta in difesa, come nel carattere del personaggio. Gli schiaffi non sono stati solo metaforici, nella sua Pontevedra il premier è stato raggiunto da un sinistro sul volto che avrebbe abbattuto un pugile, ma il grande incassatore non ha ceduto neanche in quel caso. L’unico sbandamento c’è stato in diretta tv, quando il leader socialista Pedro Sánchez lo ha accusato, con un attacco violento e personale sul punto debole: la corruzione e il suo improvvido sms al tesoriere con i soldi nascosti in Svizzera, Luis Barcenas.
Parlare con Rivera
Il primo telefono che già stamattina suonerà è quello di Albert Rivera, colui il quale ha sottratto i voti che mancano al Pp per restare al potere. Il leader di Ciudadanos ha vissuto in poche settimane quello che normalmente si vive in una carriera: il semi anonimato (fuori dai confini dell’Ebro), trionfo in Catalogna, aumento vertiginoso nel resto di Spagna, ipotesi di vittoria concreta e nell’ultima settimana una caduta, relativa, ma notevole (da seconda a quarta forza).
È arrivato stanco alla meta e lo riconosceva lui stesso alla fine della settimana scorsa.
Per ore Rivera è chiuso in una stanza di un albergo vicino al Santiago Bernabeu, dove ha stabilito il quartier generale. Porta chiusa, conferenza stampa rimandata. Poi in piena notte il leader 36enne esce tra i cori dei suoi «Yo soy español» (sfida ai vari nazionalismi).
Lui non parla, ovviamente di sconfitta, anzi «siamo persone normali che fanno cose straordinarie: alle europee abbiamo preso 500 mila voti, oggi 3 milioni e mezzo». Rivera evita scenari, «ma solo noi possiamo parlare con tutti, perché non consideriamo gli altri dei mostri». È il centro che rinasce, «dopo la transizione non era mai successo». E domani? «Non appoggiamo né Rajoy, né Sánchez. Se il premier mi chiamerà glielo dirò. Un governo in minoranza lo possiamo favorire con un’astensione. Decidano i socialisti se fanno governare il Pp». Si spengono le luci, per la prima volta nella loro storia gli spagnoli vanno a dormire senza sapere chi sarà il capo del governo.