Corriere della Sera, 21 dicembre 2015
Dove hanno sbagliato le banche di territorio
Circola in questi giorni una difesa d’ufficio delle banche popolari e di territorio che nella buona sostanza argomenta come esse stiano pagando il loro eccesso di generosità. Secondo questa tesi negli anni della Grande Crisi se non ci fosse stato il credito concesso dai piccoli istituti le conseguenze sociali sarebbero state ancor più devastanti e quindi dovremmo ringraziare i banchieri di territorio per aver agito come dei veri e propri ammortizzatori sociali. Questa tesi è molto forte nel Nord est, dove il localismo bancario ha una sua radicata consistenza ma riaffiora qua e là anche nei resoconti sull’attività degli istituti dell’Italia di mezzo o delle banche di credito cooperativo. Ma è andata davvero così? Nei territori è ancora prevalente la figura del banchiere-parroco che conoscendo vita, morte e miracoli dei suoi concittadini ha deciso di privilegiare l’appartenenza a una comune antropologia dei valori piuttosto che attenersi a una rigorosa e tecnocratica valutazione del merito di credito? No, non è così.
Come le cronache stanno ampiamente raccontando in molti territori abbiamo assistito a forme di scambio perverso tra banchieri e imprenditori, reso possibile dalla generosa concessione di credito – unita a qualche poltrona – ripagata con il fattivo contributo alla costruzione di una reputazione popolare condivisa e acclamata. Ma anche dove non si sono fortunatamente prodotte queste patologie, e quindi l’analisi socio-economica ex post non passerà dalle Procure, il modello della banca di territorio ha fatto comunque acqua e non ha peccato di generosità, bensì di aggiornamento della cultura economica. A fronte di una grande discontinuità come quella rappresentata dalla recessione settennale la risposta dei banchieri locali è stata di sostanziale immobilismo. Avrebbero sicuramente dovuto difendere il tessuto imprenditoriale della zona ma aiutandolo ad evolvere e non sussidiandone la pigrizia. Molto spesso, nel Nord est e anche altrove, il vero consulente dell’impresa è il commercialista, è lui che attraverso i suggerimenti di ottimizzazione fiscale gode della maggiore fiducia e del maggiore ascolto. Peccato però poi che il bilancio, lo strumento che dovrebbe costituire quantomeno la carta di identità delle aziende, raramente venga considerato un documento sulla base del quale si decide o no di dare credito. E comunque non può essere certo il commercialista a possedere le competenze necessarie per dettare consigli di carattere industriale all’impresa, dovrebbe essere la banca locale a far crescere una relazione più matura e via via a rendersi disponibile ad accompagnare l’imprenditore attraverso la decisione di aggregarsi, di creare reti, di entrare in filiere orientate all’export, di assumere un manager a tempo e persino di anticipare la staffetta generazionale.
Tutto ciò è avvenuto solo in misura ridotta (le eccezioni ci sono!), il merito di credito – il principio in base al quale si dovrebbe erogare o meno il denaro – non ha seguito i mutamenti indotti dalla crisi ed è rimasto ibernato al tempo dei mitici banchieri-parroci. Va da sé che un modello di questo tipo, un localismo bancario continuista, avrà in futuro sempre meno spazio e può essere invocato solo da quei politici che vogliono tenere immutata la loro area di consenso e temono di perdere influenza sulle decisioni della banche di territorio. C’è da aggiungere anche che la cultura industriale dei territori, nel frattempo, è attraversata da grandi esigenze di cambiamento: dove il localismo era sinonimo di staticità oggi si ragiona in termini di flussi, piattaforme logistiche e reti lunghe; dove il distretto rischiava di non agganciare l’innovazione si sono sviluppate filiere più competitive e legate alle imprese medio-grandi esportatrici. Francamente non ho la sensazione che tutti questi mutamenti siano sufficientemente monitorati e interpretati dalle banche di territorio, la riprova è che quando si deve organizzare su una difesa d’ufficio si finisce comunque per parlare del passato e non del presente.