Corriere della Sera, 21 dicembre 2015
Il Mezzogiorno sull’orlo del collasso e l’assenza del governo
Mi chiedo, ascoltando come tutti noi i suoi discorsi, se al nostro presidente del Consiglio è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città dell’Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese. Se ha mai visto, per esempio, il terrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di Palermo; se ha mai dato più di un’occhiata all’ininterrotta conurbazione napoletana che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O, chessò, se per andare a Potenza o a Nuoro invece di un comodo elicottero ha mai preso un treno. (Non voglio chiedergli se ha mai provato – così, tanto per provare, per carità – a farsi una tac in un ospedale calabrese: sono convinto però che molti calabresi glielo chiederebbero volentieri).
Penso che la risposta a tutte queste domande sia no, e credo di non sbagliare. Del resto è la maggior parte dell’intera classe dirigente italiana che ormai non sa più che cosa sia il Sud; che sempre più spesso neppure vi mette piede. E forse non solo essa: sono convinto che anche per la maggior parte dei giovani veneti o lombardi Lecce o Siracusa suonino come nomi di località esotiche e remote.
Si salvano solo i luoghi di vacanza: il Salento, Carloforte o Positano come le Maldive, insomma.
L’addio al Mezzogiorno prima che culturale è stato ideologico e politico. È cominciato a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando la centralità sempre maggiore del tema della legalità ha preso a fare del Sud, patria delle maggiori organizzazioni criminali europee, se non mondiali, il terreno del negativo e del male per antonomasia.
Rapidamente tutto ciò che riguardava il Sud, a cominciare dalla sua classe politica, ha acquistato un sapore di imbroglio, di corruzione, di raccomandazioni. Certo: il resto d’Italia non era da meno. Però lo era di meno. E così, chiusa la Cassa del Mezzogiorno – nell’opinione corrente divenuta unicamente simbolo di spreco e di sottogoverno, mentre invece è stata anche molte altre cose buone – stanziare soldi per il Sud è diventato sempre più problematico politicamente, alla fine impossibile. Il Sud è uscito dall’agenda dei governi.
L’ordinamento regionale ne ha completato la rovina. Non solo perché lo ha ancora di più rinchiuso nella gabbia delle sue pessime tradizioni politiche, ottimamente rappresentate specie dai gruppi dirigenti locali. Ma perché ha frantumato la sua immagine unitaria: ciò che ne faceva, per l’appunto, una grande «questione» agli occhi del Paese. Il Mezzogiorno è sparito: il suo posto è stato preso dalle Regioni meridionali. L’ordinamento regionale, poi, è valso potentemente a diffondere l’idea che il Sud, autogovernandosi, era ormai una cosa a parte, un soggetto politico a sé, che non aveva più alcun bisogno di aiuto da altri: «Ci sono le loro Regioni con sempre più poteri: che se la vedano loro». La concomitante, progressiva delegittimazione del ruolo imprenditoriale dello Stato, voluta con particolare forza anche dall’Unione Europea, ha fatto il resto.
Così, nella sostanziale indifferenza degli italiani (compresa, tragicamente, gran parte degli stessi meridionali e delle loro scellerate rappresentanze parlamentari), il Mezzogiorno è giunto dov’è oggi: sull’orlo del collasso. Da anni il suo distacco dal Nord non fa che accrescersi, sicché ormai, per esempio, il gap economico tra la Lombardia e la Calabria è maggiore di quello tra la Germania e la Grecia. È a rischio povertà nel Sud un individuo su tre (nel Nord uno su dieci). Il tasso di disoccupazione al 20 per cento è più del doppio della media nazionale (quello gi ovanile supera il 30 per cento). Oltre il 18 per cento delle famiglie ha difficoltà nell’approvvigionamento idrico. In Regioni come la Sicilia, la Sardegna, la Campania la percentuale degli studenti che non terminano il quinquennio dell’istruzione superiore si aggira intorno al 40 per cento (la media nazionale, altissima, è di circa il 25). In tutto il Mezzogiorno, infine, non c’è una sola sede universitaria definita «di qualità»: il che in parte spiega anche perché nell’ultimo decennio le immatricolazioni negli atenei meridionali siano diminuite di oltre il 27 per cento (nel Nord dell’11).
Ciò che colpisce di questa situazione è la sostanziale assenza di una reazione forte e continua da parte dell’opinione pubblica meridionale e di chi dovrebbe darle voce. Mancano larghi dibattiti, autocritiche, progetti: mancano gruppi attivi, iniziative di mobilitazione duratura, leader moderni e capaci. Le eccezioni sono la conferma della regola. È la società civile del Mezzogiorno che si direbbe ormai disanimata, svuotata di energie, perfino quasi di risorse intellettuali desiderose e capaci di parlare al Paese, come pure in passato tante volte essa ha fatto. In queste condizioni le continue richieste di fondi per i casi più vari che dal Sud si muovono allo Stato finiscono inevitabilmente per apparire più che altro come la richiesta di inutili mance. Specie se poi vengono soddisfatte.
Come stupirsi allora se nella «narrazione» di Renzi il Sud non ci sia? Senza il Sud, però, è difficile che possa esserci una «narrazione» dell’Italia, tanto più un progetto per il suo futuro. Senza il Sud infatti non esiste neppure l’Italia, esiste un’altra cosa, un altro Paese. È questo un punto cruciale – e insieme il punto più debole, mi pare – del discorso del nostro presidente del Consiglio. Se ci si propone di governare l’Italia per dieci anni – come pare che egli voglia fare – allora è impossibile farlo solo da Firenze (al massimo con una propaggine a Milano e dintorni). Così come è impossibile farlo ripetendo e twittando raffiche di «rimbocchiamoci le maniche», «la svolta è vicina», «siamo ripartiti» o incitamenti simili. Sembra necessario qualcosa di più: qualcosa che guardi più lontano e più in alto, che risponda a questioni di fondo. Che connetta il passato con il futuro, i pochi con i molti, chi ha di più con chi ha di meno, il Nord con il Sud, appunto.