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 2015  dicembre 21 Lunedì calendario

Ricordare gli uomini del generale Dalla Chiesa. Un bel saggio di Fabiola Paterniti

C’è stato un periodo speciale nella storia d’Italia in cui degli uomini speciali hanno fatto cose speciali. Erano gli Anni Settanta, quelli erano gli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che hanno combattuto e vinto la guerra contro le Brigate Rosse. «Eravamo brutti e trasandati – racconta “Trucido” -, i capelli lunghi, i jeans, le scarpe da ginnastica. Non potevamo avere una fidanzata perché non potevamo dire nulla della nostra vita. Mia mamma telefonava spesso in caserma per avere mie notizie, ma non potevano dirle niente. E capitava, quando andavo a trovarla, che qualcuno vedendomi facesse dell’ironia: ma quale carabiniere…»
«Trucido» è Pasquale Vitagliano che da cronista ho conosciuto bene in quegli anni e che adesso faccio un po’ fatica a riconoscere nel ritratto che ne esce da questo bel libro di Fabiola Paterniti che si intitola «Tutti gli uomini del generale». È un pezzo di storia inedita della lotta al terrorismo, edito dall’editore Melampo e sarà presentato oggi a Milano. Il «Trucido» che riappare dalla sua tranquilla vita di pensionato a Benevento è un uomo compiuto ma amaro, molto diverso dal Pasquale di quegli anni, un ragazzo che sprizzava vitalità, fiducia, persino una contagiosa allegria. Era difficile vederlo negli ufficetti al piano rialzato della caserma di via Valfrè; più facile incrociarlo nelle assemblee studentesche o ai cancelli della Fiat. Adesso si sente lo scarto tra allora ed oggi, e non è solo un fatto di età: «Ho creduto in questo Stato, lo abbiamo servito e riverito anche se il Paese si è dimenticato di noi. Ma rifarei tutto».
Ed è questo il filo che percorre le testimonianze degli «uomini del generale». Ma attenzione: non è un lamento qualunquista, piuttosto l’amarezza dei soldati che sono stati in prima linea e hanno visto progressivamente smontata da burocrati e politicanti una squadra che si è sentita colpita dagli stessi proiettili che hanno poi ucciso Dalla Chiesa a Palermo: «Abbandonato non dallo Stato – dice un altro degli ex, Domenico Di Petrillo, detto “Baffo” –, perché io credo nello Stato, ma da mascalzoni investiti di responsabilità pubbliche». Dalla Chiesa non era solo l’inventore e il capo del Nucleo Speciale, ma ne era insieme l’anima e il corpo, vista la dedizione fisica con cui ci lavorava, giorno e notte. I suoi uomini non solo lo rispettavano, ma lo veneravano. E quando si incontravano – ne sono testimone – dopo il saluto militare d’ordinanza, alla stretta di mano, guardandosi negli occhi, alcuni sussurravano con dedizione totale: «Mio generale…»
Gian Paolo Sechi, allora giovane capitano, che fu il suo uomo a Torino, ricorda così il reclutamento: «Io li cercavo alla scuola per sottufficiali di Firenze, naturalmente non dovevano essere sposati, né avere legami particolari. Preparavamo documenti falsi, li facevamo diventare studenti, operai, li mettevamo a lavorare alla catena di montaggio di Mirafiori. Insegnavamo loro a vivere come brigatisti, i libri da leggere, eschimo e giornali in tasca… Avevamo ispettrici di polizia che fingevano di far la tesi di laurea per spiare i vicini di banco…»
A Torino c’erano otto o nove infiltrati. Il più famoso di tutti Silvano Girotto, frate mitra, il francescano reduce dalle guerriglie sudamericane, che nel ’74 fece arrestare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini. Il Nucleo era appena stato costituito su iniziativa di Dalla Chiesa e Sechi ricorda che aveva già tanti nemici. La stessa operazione di Pinerolo venne affrettata perché una talpa al Viminale aveva diffuso dettagli riservatissimi. Nonostante i risultati il Nucleo venne sciolto nel ’75, senza nessun motivo apparente se non l’invidia che suscitava il lavoro di Dalla Chiesa. «Avremmo potuto radere al suolo l’organizzazione allora, ma non ci fu consentito. Un errore che ha pesato sulla storia d’Italia», dice ora Sechi, generale in pensione. E Gian Carlo Caselli, che da giudice istruttore fu molto vicino a Dalla Chiesa, la pensa più o meno nello stesso modo: «Non faccio dietrologie sulla chiusura del Nucleo, ma è chiaro che non erano amati, erano troppo bravi e troppo autonomi». Aggiunge Di Petrillo: «Vorrei scrivere un libro: con quali costi umani e professionali si è fatto l’antiterrorismo. Eravamo un corpo d’élite». All’indomani dell’operazione Moro, nell’estate del ’78, il nucleo viene ricostituito con il sigillo del presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Affiorano sospetti di connivenze se non di complicità dei terroristi con mondi intellettuali e politici. Sechi ricorda famiglie bene di Torino finite sotto osservazione del Nucleo per l’attivismo dei figli non osteggiato dai padri; come pure la testimonianza di Franco Piperno che rivelò di aver incontrato Mario Moretti (il capo Br che gestì l’operazione Moro) nell’estate del ’78 (dunque dopo la conclusione di quella tragedia) in un appartamento alto borghese di piazza Cavour a Roma. Eppure un altro uomo del Nucleo, il generale Alessandro Ruffino, detto il «Principino», afferma con sicurezza che «dietro le Br c’erano solo le Br. Nessuno voleva ammetterlo ma vi erano solo ragazzi italiani cresciuti nelle nostre scuole… Nessun collegamento con i servizi stranieri è mai stato provato. Era molto difficile individuarli: i brigatisti non hanno mai arruolato nessuno con precedenti penali o noto alla polizia, tra loro c’era molta gente che proveniva da famiglie per bene».
Gli infiltrati sono stati una leva fondamentale. Di Petrillo fa anche una rivelazione: «Nel ’79, dopo l’omicidio del sindacalista Guido Rossa a Genova, Ugo Pecchioli, ministro dell’Interno ombra del Pci, contattò Dalla Chiesa per offrirgli un uomo da infiltrare, un militante operativo. Era un vero militante d’altri tempi. Per gli incontri andavamo a pranzo in una trattoria fuori Roma e pretendeva di pagare il suo conto. Grazie a lui siamo riusciti a dare la mazzata decisiva alla colonna romana nel maggio 1980. Tuttora nessuno sa il nome di quel militante, non l’abbiamo detto neanche ai magistrati: gli arrestati di allora sono tutti fuori e le vendette sempre possibili».
Anche Gian Carlo Caselli ha una rivelazione da fare. «Quando Patrizio Peci (arrestato nel febbraio 1980 dagli uomini di Dalla Chiesa in piazza Vittorio a Torino) cominciò a collaborare furono avvertiti tutti: polizia, carabinieri, servizi segreti. E sembra che – certezze non ne ho – i servizi volessero farlo evadere dal carcere di Cuneo con un elicottero: follia pura, non avremmo avuto le sue rivelazioni e si sarebbe aggiunto un mistero ai tanti misteri italiani».
Questi uomini non erano numerosi, ma come raccontò poi Dalla Chiesa alla Commissione Moro, «lasciai che girassero le voci più fantasiose sulla consistenza del Nucleo perché ci credessero più forti di quanto eravamo… E quando il lavoro è finito non ho voluto né premi né medaglie per i miei uomini”.