CorrierEconomia, 21 dicembre 2015
Diamo un voto al 2015 di Mario Draghi
Il 2015 è stato per Mario Draghi l’anno nel quale è riuscito a rovesciare definitivamente non solo una politica monetaria vecchia di anni e non più adeguata ai tempi ma anche un modo di pensare della Banca centrale europea che – oggi possiamo dire – sin dalle origini è probabilmente stato troppo legato a un’altra era, e dunque non ha sempre portato risultati positivi. Il Quantitative Easing lanciato la scorsa primavera, dopo che già da metà 2014 la Bce aveva introdotto misure non convenzionali, ha segnato la rottura con gli anni in cui la preoccupazione dell’istituzione di Francoforte è sempre e solo stata quella di non fare salire l’inflazione.
Prima
Il predecessore di Draghi, Jean-Claude Trichet, era rimasto interno a quell’impostazione maturata tra i banchieri centrali negli anni in cui l’inflazione correva. Il risultato era stato il rialzo dei tassi d’interesse in un paio di occasioni in cui non era necessario. Anzi: appena prima del fallimento della Lehman Brothers, quando la crisi americana dei subprime era già evidente, e poi a crisi finanziaria già scoppiata. Una politica monetaria sostanzialmente restrittiva anche quando sarebbe stato necessario ampliare il bilancio della Bce, cioè immettere denaro nell’economia perché nell’Eurozona e nel mondo erano al lavoro forze che limitavano la crescita. Più in generale, si può dire che per i primi anni della sua vita la Banca centrale europea ha svolto una funzione di moderazione dell’attività economica nell’area euro.
Moneta
Uno degli effetti della politica monetaria della Bce pre-Draghi è stato lo straordinario rafforzamento del cambio della moneta unica che, nato con un valore inferiore alla parità con il dollaro, è via via salito fino, in certi momenti, a superare 1,50.
Mario Baldassarri ha condotto uno studio per il think-tank Economia Reale nel quale ha calcolato che se la media del tasso di cambio tra la valuta dell’Eurozona e la valuta americana fosse stata, tra il 2002 e il 2014, di uno a uno invece che di 1,33 dollari per un euro, oggi il Pil dei Paesi dell’Eurozona sarebbe più alto dell’11%.
Le simulazioni econometriche non sono necessariamente precise: il fatto certo è che la politica monetaria degli anni passati, restrittiva quando avrebbe dovuto essere neutra o espansiva, è entrata nel sangue dell’economia europea. Cambiare la mentalità della Bce, liberare l’economia dalle tossine introdotte da queste politiche e superare le opposizioni della Bundesbank è stata un’operazione lunga: il 2015 è stato l’anno in cui il cambiamento di stagione è avvenuto.
Prospettive
Il che ci lascia con un 2016 impostato su linee nuove ma non per questo scontato, dal punto di vista della Bce. A parte gli eventi imprevedibili – che, se l’anno in corso insegna qualcosa, sicuramente ci saranno —, ci sono due elementi di preoccupazione dei quali Draghi non si stanca di parlare. Da un lato, la situazione nei mercati emergenti. In generale rallentano, guidati dalla Cina, e alcuni sono in vera crisi, ad esempio il Brasile. Inoltre, il primo rialzo dei tassi d’interesse americani in quasi dieci anni, deciso la settimana scorsa, avrà probabilmente effetti non ancora registrati dai mercati: soprattutto per quei Paesi e quelle imprese indebitati in dollari negli anni del Quantitative Easing americano. Ragioni per le quali la Bce dovrà continuamente stare sul chi vive, pronta a prendere altre misure di alleggerimento monetario se la situazione esterna peggiorerà. Quando il dollaro si muove, gli effetti si possono fare sentire nei luoghi e nei modi meno prevedibili.
Cambiamenti
La seconda preoccupazione parte dal fatto che le economie dell’Eurozona, tutte, hanno bisogno di riforme strutturali serie per diventare più efficienti e migliorare la produttività. Queste riforme però non avvengono oppure sono realizzate con una lentezza esasperante. Ma, se le economie sono inefficienti e bloccano l’attività per ragioni strutturali, non c’è politica monetaria che possa fare miracoli: anzi, i colli di bottiglia bloccano i canali di trasmissione delle politiche della Bce. In più, gli anni di bassi tassi d’interesse che stiamo attraversando sono il quadro monetario espansivo migliore per fare le riforme. Quando si chiuderà questa finestra di opportunità sarà più difficile farle, per ragioni sociali e politiche. Ciò nonostante, i governi non ne approfittano.
Sarà un altro anno impegnativo, il prossimo, per Draghi e la Bce: difficilmente usciranno nella solitudine in cui la politica li ha lasciati da tempo.