il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2015
Il ritorno di Fabio Lopez, che ha allenato la Nazionale del Bangladesh tra fame, raccomandazioni e Isis
Prima di cominciare l’intervista, dobbiamo fare una premessa: io l’accento, il modo di fare romano non l’ho mai perso, quindi è normale che a volte mi scappi qualche battuta, anche se i temi che tratteremo sono tutt’altro che simpatici”.
Fabio Lopez – attuale ct del Bangladesh – in questi giorni sta tornando a casa dalla sua famiglia a Roma, dopo quattro mesi passati ad allenare la Nazionale del paese più povero al mondo. “Quattro mesi molto intensi…”. L’accento romano, è vero, non lo ha perso, eppure è lontano dall’Italia dal 2006: ha girato le panchine dei campi di calcio in Lituania, Malesia, Indonesia e Maldive. “Ma quando torno c’è sempre qualcosa che mi fa arrabbiare, e quindi l’accento lo recupero immediatamente”.
Cosa la fa arrabbiare dell’Italia?
Dunque, ho fatto un’esperienza incredibile, qui in Bangladesh, ho visto la povertà quella più brutta, lo sporco oltre ogni immaginazione, l’inciviltà a livelli inconcepibili. Ed è proprio vista da qui che l’Italia mi fa andare su tutte le furie. Noi abbiamo la storia, abbiamo il coraggio, abbiamo la creatività, eppure ci buttiamo via, non cresciamo, non emergiamo, perché lasciamo che poche lobby gestiscano tutto.
Si spieghi meglio…
Nel calcio, come in ogni altro settore, se c’è organizzazione, se ci sono persone moderne, internazionali, allora l’intero paese è all’avanguardia e va avanti. Da noi è così difficile per i giovani bravi farsi strada, per i talentusi emergere. Di quarantenni che sognano in Italia ce ne sono tanti, e oggi devono poter concretizzare, tutti, a prescindere dalla politica.
E ce lo dice dal Bangladesh…
Sì, certo. Lo dico da qui, da Dacca, un paese dove c’è il blocco dei social network voluto dallo Stato, dove ci sono stati due attentati a italiani negli ultimi tre mesi. Da qui, guardo l’Italia, e la vedo splendere. Da noi c’è tutto: si potrebbe sognare, eppure non si sogna. È come se ci stendessero ogni giorno una coperta pesante e polverosa dall’alto, in modo da tenerci tutti buoni. Diffondono libri spazzatura, pubblicizzano programmi poco educativi, abbassano il livello culturale ovunque. E noi non ce ne accorgiamo neanche..
Continui…
Abbiamo un’arma a doppio taglio: la nostra bellissima cultura, la stessa che purtroppo oggi condiziona il nostro pensiero. Quando un italiano va all’estero si sente tagliato fuori. Nel mio piccolo, sto dando il mio contributo andando in giro per il mondo ad allenare. Qui, poi, credo di aver raggiunto il fondo…
Ci racconta la sua esperienza?
In Asia il mio nome è conosciuto per via delle tante esperienze passate, mi hanno contattato in agosto, incontro con il presidente della Federazione, lo stesso giorno firmo, e inizio ad allenare. Mi hanno fatto un contratto per le qualificazioni ai Mondiali, di quattro mesi. Ho selezionato una quarantina di giocatori, e mi sono dedicato a loro.
Quattro mesi, quindi vuol dire che ora le sta scadendo il contratto…
Sì, scade a fine dicembre, e chiudo questa esperienza. È stata molto dura. Non c’era solo da gestire i diversi partiti pro e contro il presidente, ma c’era anche da trasmettere un tipo di pensiero che da loro manca proprio, poi c’è stato da fare i conti con il razzismo diffuso, e poi anche con gli attentati. Io, e gli altri due italiani del mio staff, Costantino Zuccarini e Angelo Pavia, vivevamo blindati in hotel, quando sentivamo degli attacchi terroristici. Cercavamo notizie su internet, ma molte volte era bloccato. Cercavamo di avere informazioni dalle persone dell’albergo, ma le stesse persone erano facce non molto raccomandabili. La presenza dell’Isis si sentiva.
Avete mai avuto problemi?
Direttamente mai. L’unica cosa ci ha spaventato è stata la febbre che mi venuta pochi giorni fa, per un’infezione alimentare, e sono stato due giorni con 39 gradi. Qui c’è la dengue, non c’è da scherzare. Ma poi l’ho curata, e tutto a posto.
Paura?
No. La presenza dell’ambasciatore italiano Mario Palma ci rassicurava molto. L’uccisione del nostro connazionale è stato un evento che ha scioccato tutti, lui in prima persona si è dato da fare per il sostegno di tutti. Ma due cose non dimenticherò mai di questa esperienza…
Quali sono?
La prima riguarda la partita di qualificazione per i Mondiali in Russia contro l’Australia. Abbiamo giocato anche contro Kirghizistan e Tagikistan. Ma ricordo con maggior trasporto soprattutto l’ultima gara. Avevamo tutti i brividi, essere a capo di una Nazionale così povera che doveva vedersela alla pari contro l’Australia… tutto aveva un significato molto più forte di quello che si può pensare.
La seconda?
Si tratta di un gesto. Un piccolo gesto che io e il mio staff facevamo dopo ogni colazione, dopo ogni pranzo, dopo ogni cena avvenuta in albergo. Per quattro mesi, facevamo sempre questo: ordinavamo molto più cibo di quello che mangiavamo, per poi raccogliere in una dog-bag gli avanzi, e portarli in strada ai ragazzi. A volte ci aspettavano sempre le stesse persone, altre volte cambiavano e venivano altri. Per noi era importante farlo, non ci costava nulla, li rendevamo felici.
Qual è il significato del calcio in Bangladesh?
Qui sono poverissimi, i bambini iniziano a lavorare all’età di 5 anni. I lavori per i bambini di 5 anni sono: chiedere l’elemosina per la famiglia, vendere oggetti, aggiustare motorini, separare l’immondizia. Quindi, una famiglia che può permettersi un bambino che non fa nessuna di queste cose, ma addirittura passa il suo tempo a giocare a calcio, è considerata già una famiglia benestante. Qui la gente in strada cammina sopra la pattumiera, o ci dorme accanto, non so se sono stato chiaro, se ho trasmesso il grado di povertà che ho visto.
Chiarissimo. Riesce a tirare le somme di questi quattro mesi?
Beh, ho trasmesso molto, e loro hanno dato molto a me. Ho cercato di scardinare delle regole alle quali sono soggiogati da sempre, quelle legate ai risultati, quelle legate alle amicizie, quelle partitocratiche. Appena arrivato ho dovuto scartare tre giocatori che giocavano in Nazionale perché erano vecchi e avevano la pancia: perché ci giocavano? Perché uno era figlio di un amico del presidente, un altro era amico del figlio del capo-partito, un altro era sempre in questo giro. Mi sono così tirato dietro le prime antipatie, e poi questi si sono vendicati.
Ora da dove riparte?
Dopo che uno finisce un’esperienza oggi dice di andare negli Emirati ad allenare, ma io non ci vado, perché manco lì sono raccomandato. Per ora penso a fare il Santo Natale con la mia famiglia, con Fabian mio figlio che il 20 dicembre compie un anno, e con Anastasia, mia moglie. Ma il futuro per me è probabilmente di nuovo lontano dall’Italia…