il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2015
Homeless, l’esercito degli invisibili
L’appartamento è piccolo. Un monolocale con una sola finestra, un angolo cottura nell’ingresso, un bagno cieco. Lo spazio è quasi tutto occupato da un tavolino con due sedie e un letto singolo incorniciato da un armadio. Su una mensola la foto di Tommaso, 11 anni, bellezza acerba, carattere intemperante, qualche problema a scuola come molti coetanei. Siamo in via Napo Torriani, a due passi dalla Stazione centrale di Milano, tra alberghi anonimi e negozi etnici. Gianfranco, 40 anni, divorziato con due figli piccoli, vive qui dallo scorso giugno dopo un periodo trascorso fra la strada e i dormitori pubblici. È uno degli “inquilini” selezionati dagli operatori di Fondazione Progetto Arca onlus, tra le realtà italiane più attive sul fronte del primo aiuto alle fasce deboli, per il progetto Housing First, un esperimento pilota che si propone di riportare i senza dimora tra le mura domestiche. Restituendo loro, oltre a un tetto, la dignità perduta negli anni di vita randagia.
Quella di Gianfranco è una storia qualunque: la casa di proprietà lasciata all’ex moglie e ai bambini dopo il divorzio, gli alimenti da versare, l’azienda in cui lavora che fallisce, lo sfratto dal nuovo alloggio. Lo shock della strada. I suoi compagni di ieri sono ancora là fuori, a pochi passi dal monolocale di via Napo Torriani. Dormono nei labirinti della stazione, tra mezzanini e sotterranei, accucciati su scale sudice. Vicino alle prese d’aria, simulacro di riscaldamento nelle notti gelide. Impossibile per Gianfranco non tornare con il pensiero a quello spettacolo amaro. Agli ex compagni di strada, nel senso letterale del termine. Espulsi dalla società e dal mercato, come lui.
Un esercito, secondo una recente indagine nazionale sulle condizioni degli homeless condotta da Fio.Psd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora) in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, l’Istat e la Caritas: oltre 55mila persone, in maggioranza residenti al Nord. Età media 45 anni. Nel 70 per cento dei casi vivono soli e frequentano regolarmente mense e dormitori. 30mila sono in strada da oltre 4 anni, 5000 non ricorrono né a servizi né a prestazioni. Praticamente invisibili.
“L’Housing First può fare la differenza perché promuove il passaggio diretto dalla strada a un appartamento da gestire in autonomia, favorendo un reale reintegro sociale”, sostiene il presidente della Fondazione Progetto Arca Alberto Sinigallia. La casa come diritto umano primario ma anche come luogo simbolico, di cura di sé, di appartenenza a una comunità, in grado di restituire l’identità calpestata. È ispirandosi a questi principi che, tra gli anni 50 e 60, l’Housing First si sviluppa negli Stati Uniti. Ma soltanto al principio degli anni Novanta diventa noto. Quando lo psichiatra Sam Tsemberis, considerato il fondatore del movimento, avvia a New York il programma Pathways to housing (percorsi dell’abitare). “Il modello ribalta il tradizionale approccio a scalini che caratterizza anche il nostro welfare”, spiega Alice Stefanizzi, antropologa di Arca reduce da un periodo in America per studiare i fondamenti del programma. “In Italia si passa dal marciapiede al dormitorio, da questo alle comunità o a diverse forme di convivenza e, solo dopo molto tempo, a un alloggio proprio”. Un percorso a ostacoli (e mai scontato) che il più delle volte costringe a una lunga permanenza in strada o in condizioni di precarietà.
Disagi psichiatrici
Il modello americano si focalizza in particolar modo sui senza tetto cronici e con disagio mentale, ma negli anni l’Housing First ha varcato i confini statunitensi per radicarsi in Canada, dove fa ormai parte della policy governativa, e in seguito approdare in Europa con criteri di “recruiting” meno rigidi di quello americano. In Francia a favore dell’Housing First sono stati stanziati consistenti fondi statali. E se i portoghesi, considerati pionieri nel Vecchio Continente, sono rimasti fedeli al guru statunitense (imitati da olandesi e danesi), in Italia si è studiata una formula che includa un gruppo misto di destinatari, con una permanenza in strada medio-lunga, possibilmente in grado di essere reinseriti in un tessuto sociale o in una realtà lavorativa.
Il progetto pilota è partito nel dicembre 2014 e vede coinvolte 51 organizzazioni; 26 città; un comitato scientifico con membri di 11 università e 201 appartamenti per un totale di 200 persone accolte. “Un esempio di innovazione sociale che presuppone un cambio di paradigma”, dice il responsabile di Housing First Italia Marco Iazzolino. “Il passaggio da un modello assistenziale, che nel caso dei senza tetto si limita a soddisfare bisogni primari producendo cronicità, a una logica di sviluppo della persona”. Con un abbattimento cospicuo di costi sociali: è stato calcolato che per mantenere un “inquilino” in appartamento sono sufficienti 18 euro al giorno, a fronte dei 35 che si versano per ogni ospite nei dormitori (secondo i parametri del ministero dell’Interno). Inoltre lontano dalla strada calano le richieste di pronto soccorso e diminuisce l’abuso di droghe e alcool.
Chi provvede alle spese
Ma chi paga, qualora lo Stato non sia in grado di far fronte alle spese? “Conditio sine qua non per essere ammessi al programma è che gli ospiti contribuiscano appena possibile alle spese dell’appartamento con il 30 per cento del proprio reddito”, sottolinea Paolo La Marca, operatore di progetto Arca. Al resto per ora provvede il Terzo Settore. L’obiettivo, però, è che una volta ritrovato impiego e reddito l’ospite affitti un alloggio con risorse proprie, per lasciare spazio a un altro senza dimora.
Autodeterminazione, separazione tra diritto alla casa e trattamento terapeutico (non è necessario “comportarsi bene” per aggiudicarsi un alloggio), supporto intensivo alla persona presso i servizi sociali, sanitari o di collocamento lavorativo, sono tra gli altri principi fondanti dell’Housing First. “Gli assistiti sono tenuti a incontrare gli operatori una volta alla settimana”, spiega La Marca. “Si lavora insieme sull’integrazione nel quartiere, il disbrigo di pratiche burocratiche, la ricerca di lavoro”. In Italia il progetto pilota si concluderà nell’ottobre del 2016. Intanto gli studi condotti all’estero negli ultimi vent’anni hanno dimostrato che la disponibilità di una casa propria favorisce l’inclusione sociale e incide sul benessere psico-fisico della persona, riducendo le spese per cure mediche e medicinali. E che l’80 per cento degli ex senza tetto riesce a mantenere il proprio alloggio a due anni dall’inserimento nel programma, mentre nel sistema a gradini solo 3 persone su 10 arrivano in cima (cioè a varcare la soglia di un appartamento) entro 24 mesi.
Gianfranco mangia ancora alla mensa dei poveri. Il poco lavoro saltuario non gli consente grandi spese. Ma questo Natale lo passerà in casa. In via Napo Torriani, vicino alla stazione. I suoi figli non devono più chiedergli dove dorme. Non devono più vergognarsi del loro papà.